di Daniele Scalea

Quello che sta succedendo in queste ore negli Usa potrebbe avere dell’incredibile, se non avessimo già contezza di quanto i maggiori social network e media americani siano faziosamente ostili a Donald Trump. Quasi tutti i canali televisivi stanno volutamente nascondendo notizie scottanti su Biden; Twitter e Facebook hanno scelto ufficialmente di censurare notizie vere che mettono in cattiva luce il candidato democratico, arrivando a bloccare account di giornali e del Partito Repubblicano – che reagisce preparando ordini di comparizione davanti al Senato per Jack Dorsey e Mark Zuckerberg, fondatori e direttori rispettivamente di Twitter e Facebook.

Per spiegare questi caotici avvenimenti, occorre fare un’ampia premessa che riguarda Hunter Biden, figlio dell’ex Vice-Presidente di Barack Obama e oggi candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden. Chi ha seguito il dibattito televisivo tra Trump e Biden, si rammenterà il Presidente citare più volte Hunter Biden, col rivale che glissa sul tema aiutato dal faziosissimo moderatore. Il fatto è che su Hunter Biden, già da tempo, giornalisti investigativi come Peter Schweizer hanno scoperto dettagli scandalosi, che mettono in forte dubbio l’integrità anche del padre.

Sappiamo, infatti, che Hunter Biden ottenne un’ottima posizione lavorativa, subito dopo la laurea, col gigante delle carte di credito MBNA, proprio mentre il padre stava lavorando a una nuova legislazione sulla bancarotta che, non sorprendentemente, uscì assai favorevole agli interessi degli istituti di credito. Ma questa è poca cosa rispetto a ciò che è accaduto dopo, negli anni in cui Joe Biden era alla Casa Bianca. Nel 2013, recandosi in Cina per incontrare i vertici del regime comunista, l’allora Vice-Presidente pensò bene di dare un passaggio col Air Force 2 al figlio, che per conto di un fondo d’investimenti negoziò e ottenne un investimento da ben 1,5 miliardi di dollari da parte di un’entità statale cinese. Il fatto più controverso si verifica però l’anno seguente, nel 2014. Joe Biden è incaricato da Obama di occuparsi dell’Ucraina, dove è appena avvenuta una rivoluzione anti-russa e il nuovo regime dipende fortemente dagli aiuti finanziari di Washington. Hunter Biden, che non ha alcuna esperienza di industria estrattiva e men che meno di Europa dell’Est, viene prontamente assunto nel CdA di Burisma, la più grande azienda di gas naturale dell’Ucraina, con stipendio da 50-80mila dollari al mese. Burisma è proprietà di Mykola Zlochevsky, uno degli oligarchi che era sceso in politica a fianco del deposto presidente Janukovich, inviso al nuovo regime e ricercato per accuse di corruzione. Nel marzo 2016, Biden minaccia di bloccare vitali trasferimenti finanziari all’Ucraina se quest’ultima non avesse licenziato Viktor Shokin, il procuratore generale. Ufficialmente, l’accusa rivolta a Shokin è di non fare abbastanza contro la corruzione. In realtà, dicono il diretto interessato e indagini giornalistiche, la motivazione è che Shokin stesse indagando su Burisma, la società per cui lavorava il figlio di Joe Biden. Ovviamente il Parlamento ucraino votò il licenziamento di Shokin. Per chi volesse approfondire la vicenda, si rimanda al dettagliato racconto contenuto in Trump contro tutti.

Lo scorso anno due commissioni del Senato (Finanze e Sicurezza Interna) hanno cominciato a indagare sulle vicende di Hunter Biden: il risultato dell’investigazione è stato pubblicato di recente. Nel report del Senato si legge che all’interno dell’Amministrazione Obama e della diplomazia statunitense c’era preoccupazione per il ruolo di Hunter Biden in Burisma (il cui proprietario era considerato un oligarca corrotto dal Dipartimento di Stato) e il conflitto d’interessi che si creava per Joe Biden. Inoltre, sono state portate alla luce transazioni sospette con l’estero che hanno fruttato a Hunter Biden e al suo socio Devon Archer (anche lui cooptato nel CdA di Burisma) milioni di dollari: tra questi 3,5 milioni di dollari pagati dalla moglie dell’ex sindaco di Mosca al figlio di Joe Biden. Tra le uscite sospette scovate, ci sono pagamenti di Hunter Biden a donne dell’Est Europa collegate “al giro della prostituzione e del traffico di esseri umani”.

Finora, Joe Biden si è difeso da queste accuse in due modi. Da un lato, le ha sempre definite “discreditate”: sebbene non le abbia mai confutate, il clamoroso silenzio sulla vicenda di quasi tutti i media americani lo ha aiutato. La seconda linea difensiva è quella di non aver mai parlato col figlio degli affari che quest’ultimo intratteneva all’estero.

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Questa seconda linea è crollata miseramente l’altroieri, quando il “New York Post” ha pubblicato uno scoop, reso possibile proprio dalla distrazione di Hunter Biden. Nel 2019 egli aveva portato a un negozio del Delaware il proprio computer portatile in riparazione: non si era però mai recato a ritirarlo. Il proprietario, dunque, lo aveva ceduto al FBI, ma non prima di copiare il contenuto del disco rigido e passarlo a Rudy Giuliani. Nel costoso portatile di Hunter Biden si sono trovate non solo video di lui che consuma droga (la passata tossicodipendenza del figlio di Joe Biden era già nota), ma anche diverse email. In una di esse, uno dei colleghi ucraini di Hunter lo ringrazia per avergli organizzato un incontro coll’allora Vice-Presidente degli Stati Uniti d’America. La separazione tra gli opachi affari del figlio e il ruolo istituzionale del padre non esiste più. Il comitato elettorale di Joe Biden non è in grado di smentire: l’incontro “non figura nella sua agenda ufficiale” (e si vorrebbe ben vedere!), ma essa presenta diversi buchi nelle giornate in cui si pensa sia avvenuto.

Qui comincia, però, la parte più scandalosa della storia. La maggior parte delle celebrate tv americane non dà nemmeno la notizia. Ieri Joe Biden è ospite di NBC per oltre un’ora, durante la quale il presentatore non gli fa una singola domanda sullo scoop del “New York Post”. Sono però Facebook e Twitter a prendere la decisione più clamorosa: viene impedito di condividere il link alla notizia e chi la diffonde si vede bloccare l’account. Vengono così bloccati gli account di un giornale con duecento anni di storia e creato dal padre fondatore degli Usa Alexander Hamilton (appunto il “New York Post”), del comitato elettorale di Donald Trump, della portavoce della Casa Bianca, del gruppo repubblicano al Senato e via dicendo. Ufficialmente perché i social network non vogliono incoraggiare la diffusione di materiale hackerato, motivazione che non regge sia perché non è certo si possa tecnicamente considerare hackerato un disco rigido che il proprietario ha abbandonato, sia perché Twitter e Facebook non hanno applicato la medesima misura quando si è trattato delle telefonate private di Melania Trump o del registro fiscale di Donald Trump. Evidente a tutti che le compagnie di Zuckerberg e Dorsey hanno agito per partigianeria politica, andando però così a sfruttare il proprio ruolo monopolistico nella distribuzione delle notizie online per interferire nella campagna elettorale. Ora saranno convocati con ordine di comparizione dal Senato.

Converrà ai signori del web che vinca il loro beniamino Joe Biden, il 3 novembre. Altrimenti, dopo quest’ultimo clamoroso sgarbo, Donald Trump nel suo secondo mandato potrebbe finalmente fare ciò che colpevolmente non ha tentato nel primo: togliere loro lo scudo che li protegge legalmente, descrivendo i social come piattaforme neutrali non responsabili dei contenuti pubblicati. Nel momento in cui Twitter e Facebook impongono una “linea editoriale” a ciò che circola al loro interno, di fatto si pongono come media company. Con tutte le responsabilità penali e giuridiche per ogni singolo post e tweet pubblicato. Lo strumento ideale per abbattere questi arroganti giganti e il loro oligopolio che attenta a pluralismo e democrazia.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.