di Fabio Bozzo

La crisi in Ucraina è lungi dall’essere finita; piuttosto possiamo dire che si sta avviando alla conclusione una sua fase più acuta e più internazionalizzata del solito. Fase che ha tenuto mezzo mondo incollato ad internet ed ai notiziari.

Cerchiamo pertanto di trarre alcune lezioni da questo round arroventato. In soldoni la domanda è solo una: chi ha vinto e chi ha perso? La geopolitica altro non è che l’esercizio del potere da parte degli attori internazionali, i quali mirano a tutelare o il loro interesse nazionale o, più raramente, la loro fede ideologica (sia essa laica o religiosa). Pertanto, in base alle condizioni preliminari dei protagonisti ed alla posta in gioco, cerchiamo di rispondere all’unica domanda veramente importante di tutte le partite diplomatiche, ossia chi vince e chi perde.

L’Ucraina

Lo Stato ucraino non ha saputo ricostruire la sua economia dopo i disastri sovietici ed oggi contende alla Moldavia il poco invidiabile primato di Paese più povero d’Europa. La sua classe dirigente, al netto di una forte contrapposizione politica tra europeisti e russofili, ha dimostrato di essere essenzialmente incapace, corrotta e troppo sottomessa agli oligarchi economici post-sovietici. Costoro altro non sono che ex dirigenti pubblici dell’era comunista che, con le liberalizzazioni, usarono il loro vantaggio all’interno del sistema-Paese per costruirsi degli imperi personali. Né più né meno di quanto accaduto nella stessa Russia, con la non trascurabile differenza che a Mosca, ad un certo punto, il potere politico ha ripreso il controllo della cupola oligarchica e l’ha riportata al di sotto dell’autorità statale, pur lasciando intatte le sue ricchezze accumulate. L’Ucraina al contrario non ha saputo valorizzare le sue potenzialità: territorio ideale per l’agricoltura, vaste riserve carbonifere, industria vetusta ma sviluppata e popolazione istruita. Certo nessuno pensa che la ricostruzione post-sovietica potesse essere facile, ma a trent’anni dal crollo dell’URSS le colpe della leadership di Kiev appaiono evidenti.

La Russia

Al contrario della sorella “minore” la Russia è riuscita a rimettere insieme i cocci del disastro socioeconomico ereditato dai bolscevichi. Certo è stata aiutata dalla manna di poter esportare gas e petrolio, ma nella vita serve anche la fortuna. Nella sua palese e comprensibile volontà di ricostruire il nucleo del suo vecchio impero (impero ben più antico del comunismo) Mosca non ha esitato a sfruttare gli errori e le sfortune di Kiev. Putin tuttavia, da bravo scacchista e gelido ex agente del KGB, sa benissimo che un’identità ucraina esiste ed è ben radicata nei sentimenti del grosso della popolazione. Pertanto cercare d’inghiottire l’enorme boccone in un colpo solo avrebbe provocato una vera e propria guerra, con migliaia di morti ed inevitabile intervento dell’Occidente. Occidente che la Russia economicamente e militarmente non ha alcuna possibilità di affrontare. Di conseguenza il signore del Cremlino sta da anni attuando una progressiva opera di logoramento ai danni dei suoi avversari ucraini.

Sfruttando la minoranza russa e gli errori della leadership di Kiev a questo giro Putin ha ottenuto: la sostanziale accettazione internazionale della riconquista russa della Crimea, la probabile annessione (tra qualche anno e probabilmente a seguito di una fase di autonomia dall’Ucraina) di parte delle regioni del Donbass e del Lugansk, la dimostrazione al mondo che la (dis)Unione Europea è diplomaticamente inesistente e che la NATO pur essendo militarmente imbattibile non vuole impegnarsi sul campo. Risultato? Ora gli ucraini sanno che a chiedere l’aiuto dell’Occidente si rischia seriamente di fare la fine degli afghani che avevano creduto in noi ed ora se sono fortunati si trovano in esilio negli USA ed in Europa, in caso contrario sono carne da macello dei Talebani. Tale consapevolezza non potrà che aiutare i partiti filorussi dell’Ucraina. Come se non bastasse, diciamo per buon peso, con questa crisi Putin ha anche fatto un bel passo in avanti nella futura riannessione della Bielorussia, che probabilmente si realizzerà appena il dittatore di Minsk andrà in pensione o all’altro mondo. Se consideriamo che la forza economica e militare della Russia è appena una scheggia di quella dei Paesi NATO non possiamo che toglierci il cappello di fronte a quanto ottenuto dal nuovo ma non più giovane Zar.

Infine Mosca sta abilmente giocando la carta cinese. Al Cremlino sono perfettamente consapevoli che le uniche due vere superpotenze al mondo sono USA e Cina, con la Russia che tutt’al più può mirare al ruolo di ago della bilancia. Aver spinto Mosca verso l’abbraccio di Pechino è stato uno dei più gravi errori geopolitici americani degli ultimi trent’anni, ma questo non toglie nulla al terrore che i russi hanno per la Cina. Terrore demografico, economico, da pochi anni anche militare e da sempre etnico. Al tempo stesso gli USA sanno bene chi è il vero nemico di questo secolo e sanno di condividere con in russi l’essenza di una comune matrice etnoculturale europea. Cose ben chiare anche ai russi, che dai tempi di Pietro il Grande guardano ad occidente e che non vedono l’ora di vendere la loro alleanza a Washington. Cosa chiedono in cambio? Inutile dirlo: la ricostruzione del loro storico nucleo imperiale.

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Gli Stati Uniti

Washington paga una leadership debole (e per questo isterica), una grave confusione in politica estera ed una oggettiva crisi sociopolitica interna. Biden, stretto tra i “pacifisti” di sinistra e gli isolazionisti di destra, ha dovuto chiarire subito che non avrebbe inviato truppe a combattere per l’Ucraina (capito amici ucraini?). Al tempo stesso, per non annunciare al mondo la fine del secolo americano, ha dovuto pronunciare discorsi molto duri contro gli appetiti del Cremlino. A salvare parzialmente la faccia della Casa Bianca è stata solo l’enorme superiorità della potenza USA rispetto a quella russa: la minaccia economica era concreta e Putin è troppo abile per infilarsi in una guerra che sa di non poter vincere. Pertanto possiamo dire che Biden ha sì pareggiato, ma portando in campo una squadra paragonabile al Real Madrid contro una paragonabile alla Lazio.

La politica estera del Presidente democratico è risultata eccessivamente condizionata da quella interna. Le elezioni di medio termine saranno quasi certamente un trionfo repubblicano ed una resurrezione politica di Trump (ammesso che fosse morto): tutto ciò ha messo “Sleepy Joe” in ansia da prestazione. Infine la situazione interna degli USA è oggettivamente problematica. La società è divisa politicamente e settorializzata etnicamente come mai dai tempi della Guerra di secessione, al punto che tornano alla mente le parole del grande Presidente Lincoln (il liberatore degli schiavi che sognava di riportare in massa in Africa), che poche ore prima d’essere assassinato disse degli afroamericani: “Mi chiedo cosa faremo di loro. L’idea di una guerra razziale mi terrorizza”. Alla luce del Black Lives Matter e degli altri deliri razziali antibianchi a stelle e strisce appare arduo dare torto al primo Presidente repubblicano della storia.

L’Europa

L’Unione Europea, come al solito, ha dimostrato di non esistere. Nessuna politica estera comune, nessun esercito comunitario e nessuna comunità di interessi e tanto meno di intenti. Il vuoto cosmico. Pertanto possiamo limitarci ad analizzare le politiche dei Paesi più importanti dell’UE e di quelli più coinvolti dagli eventi ucraini.

I rappresentanti della linea dura contro Mosca sono stati la Polonia, i Paesi Baltici, la Romania e la Bulgaria. Il motivo è semplice: dopo cinquant’anni di occupazione sovietica e di orrori comunisti vogliono tenere la Russia il più lontano possibile dai loro confini. Certo la Russia non è più l’Unione Sovietica, ma umanamente e psicologicamente è difficile dargli torto. Ai Paesi dell’est europeo va aggiunta la Gran Bretagna, il che non sorprende. Nazione geneticamente legata agli USA dalla celebre special relationship, il Regno Unito post-Brexit ha saggiamente rinforzato il già solidissimo legame con Washington.

La Germania. Berlino, al contrario dei Paesi appena citati, è stata molto più fredda. Circondata da alleati e cuore pulsante dell’economia del Vecchio Continente, Berlino può permettersi una politica estera che pensi quasi esclusivamente agli affari. Pertanto da un lato si è schierata, come doveva, con l’emisfero atlantico, dall’altro ha fatto il possibile per gettare acqua sul fuoco. Della serie: litigate pure per l’Ucraina, ma intanto apriamo il gasdotto Nord Stream 2.

La Francia. Il classico presenzialismo parigino si è perfettamente sposato con la necessità del Presidente Macron di portare a casa un qualunque risultato prima di un’elezione il cui risultato appare certo come un sorteggio alla pesca di beneficenza. Purtroppo la leadership francese ha dimenticato (come al solito) che dal 1940 non si torna indietro.  Il risultato? L’attivismo di Macron è apparso come quello di uno studente di liceo in visita all’università e che alza la mano per fare una domanda, ma solo per far vedere ai più grandi che c’è anche lui.

Infine l’Italia, ossia la quarta economia europea (superiore alla stessa Russia), dotata di un asset militare di tutto rispetto, da sempre beniamina degli USA in virtù della sua posizione geografica ed al contempo avente ottimi rapporti commerciali con Mosca. Risultato? Il nulla. Nessuna proposta ufficiale di compromesso. Nessun tentativo di ripetere il successo diplomatico di Pratica di Mare. Forse, tuttavia, un successo c’è stato: dopo aver oggettivamente fatto dei passi avanti con i congiuntivi c’è la possibilità che il nostro Ministro degli Esteri giunto direttamente dalle gradinate del San Paolo abbia anche imparato dove si trova l’Ucraina sulla carta geografica. Meglio di niente…

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).