di Fabio Bozzo

Le ultime due elezioni francesi hanno sostanzialmente confermato i pronostici. Nella tornata presidenziale del 10 e 24 aprile 2022 la società francese ha mostrato una marcata settorializzazione politica al primo turno, mentre al ballottaggio il Presidente uscente Macron ha prevalso su Marine Le Pen con il 58.54% contro il 41.46% dell’avversaria. Niente di nuovo sotto il sole: la Destra identitaria costituita in massima parte dal Rassemblement National rappresenta la maggioranza relativa dei francesi, ma ad oggi il “cordone sanitario” di tutte le forze di centro e di sinistra hanno bloccato la sua marcia verso l’Eliseo.

Ma la Francia è una repubblica semi-presidenziale: pertanto il Presidente, per quanto istituzionalmente preminente, deve confrontarsi col parlamento. Ed è qui che le cose si sono ingarbugliate come non accadeva dai tempi della cohabitation tra il Presidente Mitterand ed il Primo Ministro Chirac negli anni ’80. Nelle elezioni politiche del 12 e 19 giugno 2022 (quindi appena due mesi dopo le suddette presidenziali) il cartello elettorale Ensemble, emanazione parlamentare di Macron, ha spuntato il 38.57%, a fronte del 31.60% del NUPES (coalizione di tutte le forze di sinistra ed estrema sinistra) e del 17.30% del Rassemblement National. In termini di seggi ciò si traduce in 245 eletti macroniani, 131 social-comunisti ed 89 lepenisti (malgrado questi numeri il secondo gruppo parlamentare è risultato fin da subito quello del Rassemblement National, in quanto le Sinistre hanno creato quattro gruppi differenti e spesso discordanti). In breve Macron non ha più la maggioranza assoluta presso l’Assemblea Nazionale, cosa che nel gergo politico lo rende un’anatra zoppa, sebbene la variegata maggioranza anti-Macron abbia come unico comune denominatore l’antipatia verso il Presidente: ciò lascia all’inquilino dell’Eliseo ampi spazi di manovra nei voti parlamentari, seppur al costo di estenuanti contrattazioni politiche.

Pertanto l’Eliseo nel 2022 si è trovato di fronte ad una duplice sfida: il calo di consensi dei partiti governativi per eccellenza e l’invasione putiniana dell’Ucraina. Di fronte a tale situazione Macron si è dato da fare con un notevole attivismo diplomatico, incontrando il signore del Cremlino e cercando di ritagliarsi un ruolo di pacere e, forse, di arbitro super partes. Tutto inutile, poiché come abbiamo scritto in un altro articolo dal 1940 non si torna indietro, pertanto la Francia malgrado i tentativi macroniani di ritagliarsi una zona d’autonomia (eterno sogno infranto fin dai tempi di De Gaulle) ha dovuto allinearsi al resto della NATO: pieno sostegno militare e diplomatico all’Ucraina e sanzioni economiche alla Russia. Certo Parigi mantiene un profilo più da colomba rispetto al falco antiputiniano europeo per eccellenza – Londra – ma questo non a causa della moderazione francese, quanto della determinazione britannica di abbattere l’attuale regime russo.

Se non altro la poco gratificante figura da peso medio che vorrebbe giocare al livello dei pesi massimi (altro ottantennale errore francese) ha sì dimostrato che la Francia non ha la forza per attuare una sua vera autonoma politica estera, ma che per lo meno ogni tanto ci prova in modo simile e contrario al Regno Unito, il quale (specie dopo la Brexit) sfrutta appieno la sua Special Relationship con gli USA, riuscendo a mantenere il ruolo non trascurabile di alleato prediletto di Washington. Dall’Italia, al contrario, il nulla più assoluto, malgrado il nostro Paese possegga la quarta economia europea ed il vantaggio di aver coltivato da anni buone relazioni sia con gli Stati Uniti sia con la Russia. Un’insipienza diplomatica al limiti del vergognoso, la cui analisi ci porterebbe ad approfondimenti sulla politica italiana che esulano dal presente articolo.

Torniamo alla Francia. La guerra russo-ucraina è ancora in corso ed il fronte si è sostanzialmente impantanato in una logorante guerra di posizione che non potrà durare all’infinito. Nella ridefinizione degli equilibri post bellici Parigi si troverà di fronte a quattro possibilità:

  1. continuare imperterrita con i puerili tentativi post-gollisti di crearsi un proprio spazio geopolitico, almeno parzialmente autonomo all’ombra della contesa mondiale tra le due superpotenze americana e cinese;
  2. sterzare “verso ovest”, ossia seguire la scia britannica e trasformarsi in un campione dell’atlantismo, onde evitare di diventare sempre più ininfluente in un’Unione Europea che pare destinata (finché esisterà) a trasformarsi in un vassallo economico, e quindi politico, della Germania;
  3. tentare al contrario la “via dell’est”, ossia cementare il rapporto con Berlino (dove da circa vent’anni si sta cercando una formula geopolitica più autonoma dagli USA). In questa sorta di novello impero carolingio, già in passato definito Framania, Parigi potrebbe, almeno all’inizio, compensare la maggior forza economica tedesca con forze armate più numerose, dotate di più armamenti ed in possesso di un deterrente nucleare;
  4. la via “latina” o “del sud”, la più difficile, ma che per l’orgoglio francese sarebbe la meno peggio. Tale percorso vedrebbe la Francia cercare di creare una associazione sempre più stretta con Spagna ed Italia.

Proviamo ad analizzare brevemente i pro ed i contro delle quattro potenziali strategie che Parigi dovrà scegliere da qui ad un anno.

L’opzione gollista è l’usato sicuro della politica estera parigina. I suoi risultati sono da sempre miseri e qualche volta nella storia hanno anche gettato sulla Francia un mix di discredito e ridicolo. Tuttavia l’orgoglio francese è un elemento fondante del carattere nazionale transalpino e le altre opzioni sono irte di difficoltà e punti interrogativi, pertanto è probabile che Parigi alla fine resti ciò che è dal 1958 ad oggi: un Stato atlantista che ogni tanto fa le bizze, le quali vengono assecondate da Washington con un’alzata di spalle della serie: “Sono fatti così… ma alla fine vengono anche loro”.

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La “sterzata ad ovest”, ossia il ritorno alla geopolitica pienamente atlantista francese pre-1958 (al punto che prima di De Gaulle il comando NATO aveva sede proprio a Parigi) sarebbe la soluzione più saggia, ma è al contempo assai improbabile. Ormai è chiaro che la “terza via” gollista è sempre stata e sempre sarà poco più che una barzelletta. Questo perché la Francia non solo sarà sempre più debole delle vere superpotenze (ieri USA ed URSS, oggi USA e Cina), ma oggi in Europa la sua influenza è surclassata anche da quella tedesca. Un ritorno organico al fianco di Washington e Londra permetterebbe a Parigi di essere una voce pesante dove si comanda davvero e di divenire il prezioso cane da guardia di alcune non ancora ben definite ambizioni continentali tedesche.

Tuttavia, come accennato, tale percorso è improbabile. La mentalità francese è plasmata da un orgoglio che spesso sbanda nell’arroganza e che il gollismo ha reso quasi istituzionalmente antiamericano (se non nella sostanza sicuramente nella forma). Inoltre l’attuale relativa debolezza politica di Macron sconsiglia eccessive deviazioni atlantiste, in quanto sia la Sinistra sia i lepenisti (per ragioni storico-politiche opposte e parallele) sono forse più allergici agli USA di quanto lo sia mai stato lo stesso De Gaulle. Per tali ragioni se il Presidente chiedesse un reintegro ufficiale nel sistema geopolitico americano ciò sarebbe visto come un’umiliazione dalla Destra e come un collaborazionismo con l’imperialismo dalla Sinistra: il risultato sarebbe un Vietnam parlamentare permanente all’Assemblea Nazionale.

Opposta alla via atlantica vi è quella neo-carolingia, che vedrebbe Parigi legarsi a Berlino al fine di creare un vero e proprio blocco continentale il quale, come un irresistibile centro gravitazionale, nel giro di pochi anni attirerebbe a sé quasi tutti gli Stati europei. Ma si tratta di un gioco assai rischioso, per il quale la Francia non ha in mano le carte adeguate. La Framania neo carolingia sarebbe inevitabilmente a guida tedesca, mentre tutti i Paesi medio-piccoli dal Belgio fino alla Grecia diventerebbero più di quanto non siano già delle dépendance della Germania. La Francia, in virtù della mole e delle forze armate, resisterebbe di più e meglio, ma alla fine vedrebbe le sue politiche estera ed economica gestite da Berlino in base agli interessi di Berlino. La storia insegna che i tedeschi sono poco inclini al compromesso quando si tratta di soldi e i francesi, stavolta giustamente, esaurirebbero rapidamente la pazienza.

Vi è infine l’ultima chance che Parigi potrebbe tentare, ovverosia la via “del sud” o “latina”. Da un punto di vista culturale e linguistico una maggiore integrazione franco-italo-spagnola avrebbe meno difficoltà di tante altre opzioni; inoltre creerebbe un blocco dal peso specifico impossibile da trascurare e che curiosamente ricorderebbe da vicino i confini dell’Impero Romano d’Occidente. Ma se tale opzione per la Francia appare come la più promettente è anche la più irta di ostacoli. Un’eventuale “unione latina” sarebbe inevitabilmente guidata da Parigi ad uso e consumo della sua geopolitica, sempre fatta all’insegna del “voglio ma non posso”. Per Italia e Spagna si tratterebbe di un ben misero affare. Madrid perderebbe la sua invidiabile posizione di Paese al tempo stesso marginale ma fondamentale per la NATO e l’Unione Europea, ottenendo in cambio di impelagarsi negli avventurismi francesi da cui ha poco e niente da guadagnare. Il nostro Paese invece, al netto di una politica estera vergognosamente inesistente, ad oggi è un tassello (anzi una portaerei) fondamentale per l’alleanza atlantica nel Mediterraneo e nel Nord possiede una media industria legata a filo doppio con quella tedesca. Di fronte a questa coppia d’assi (ripetiamo: che l’Italia non fa minimamente pesare) Parigi non ha molto da offrire, a parte un ideale di grandeur che fa poca presa nell’animo di un popolo cinico, pragmatico e privo di un profondo sentimento nazionale come quello italiano.

A differenza della Francia l’Italia ha quasi sempre saputo riconoscere i propri limiti. Oggigiorno il principale è quello di essere al contempo ricca e debole: la preda perfetta. In queste condizioni per il nostro Paese è impossibile non essere il partner secondario di un potenza maggiore, pertanto, visto che vassalli si deve essere, meglio avere come partner di maggioranza la lontana Washington che le vicine e storicamente più imprevedibili Parigi o Berlino.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).