Fabio Bozzo

 

“Nei prossimi decenni assisteremo alla persistente ascesa del potere e della cultura non occidentali e allo scontro dei popoli non occidentali sia tra loro sia con l’Occidente”. Così scriveva Samuel Huntington nel 1996. Se andiamo ancora più indietro, ossia nel 1816 in un’isoletta sperduta nell’Atlantico meridionale, un uomo di genio condannato all’esilio per aver avuto la tracotanza di voler asservire l’Europa dichiarò: “Quando la Cina si sveglierà il mondo tremerà”. Queste due citazioni andrebbero scolpite nelle stanze di tutti i Presidenti e di tutti i Primi Ministri del mondo libero.

La Cina si è svegliata ormai da quasi cinquant’anni. Tuttavia solo da circa venti ha cominciato a non controllare più la sua fame. Fame di ricchezza, di risorse naturali e di potere geopolitico. E, possiamo esserne certi, anche fame di vendetta contro l’Occidente. Mai commettere l’errore di sottovalutare la memoria storica dei cinesi. L’umiliazione delle Guerre dell’oppio, che diedero inizio al collasso dell’allora potentissima dinastia Manciù ed a 130 anni tra i più terribili della storia sinica, brucia ancora negli animi di molti cinesi istruiti. Questo perché oggi come mille anni fa la Cina ritiene d’essere il centro del mondo, circondata da barbari che devono portare tributi all’imperatore o essere puniti dalla sua potenza.

Ovviamente oggi la retorica è cambiata, ma la liturgia imperiale ed un neanche tanto velato senso di superiorità restano l’essenza dell’identità cinese. Al punto che possiamo dire che il Partito Comunista Cinese, anche nel periodo dei peggiori deliri maoisti, altro non è che l’ennesima dinastia alla guida dell’Impero di Mezzo. Persino l’abolizione del limite dei due mandati presidenziali, attuata da Xi Jinping, va nella direzione di trasformare una nomenklatura di modello sovietico nell’immagine di una figura imperiale. Ma l’attuale leadership di Pechino non è soltanto un insieme di ideologia comunista (a tutt’oggi più forte e sentita di quanto si creda) e di un imperialismo antico duemila anni. Al timone della Città Proibita vi sono persone che sono anche pragmatiche in piena tradizione confuciana, quindi realiste e ciniche. Pur non abbandonando nulla del controllo tirannico, tipico delle dittature bolsceviche, hanno saputo mettere in soffitta la fallimentare economia comunista, creando un ibrido unico al mondo fatto di capitalismo di Stato e di libera impresa sottomessa al dirigismo del partito unico comunista. L’obbiettivo di questa leadership è duplice: diventare la prima potenza mondiale e dimostrare che il sistema dittatoriale cinese è migliore e più forte della democrazia occidentale.

Molti analisti hanno già scritto a proposito delle tecniche di espansione geopolitica cinesi, che vanno dalla pura e semplice violenza (scontri armati contro l’India che proseguono dal 1962, quelli contro il Vietnam durati dal 1974 al 1988 e colpo di Stato in Birmania) alla conquista economica dei Paesi africani tramite la corruzione delle loro leadership. Passando ovviamente per il sostegno militare e monetario a tutti quegli Stati che sono per un motivo o per l’altro in rotta di collisione con l’Occidente, quali Iran, Venezuela o Cuba. Per la Corea del Nord la situazione è ancora più semplice: ormai si tratta di un semplice vassallo di Pechino, da agitare come un cagnolino rabbioso quando occorre distrarre l’opinione pubblica mondiale.

Di fronte a tutto ciò quali sono le contromosse che l’Occidente può attuare per vincere la Nuova Guerra Fredda? Guerra che, ricordiamolo di nuovo, in caso di sconfitta vedrebbe la crisi della democrazia, dello Stato di diritto e della stessa Civiltà occidentale, esattamente come sarebbe successo in caso di vittoria nazista o sovietica durante il XX secolo. Al momento le mosse da attuare sono di quattro diverse nature, che cercheremo di analizzare.

  1. Coesione occidentale nelle politiche economiche.
  2. Maggiore incisività tanto nel sostegno degli alleati quanto nel contrasto degli avversari in quelle parti di mondo contese dai due contendenti.
  3. Creazione di un’alleanza, dichiaratamente “timorosa” della Cina, che sia il più vasta possibile.
  4. Azioni di intelligence che limitino i punti di forza di Pechino fuori dalla Cina e sollecitino le sue criticità all’interno della stessa.

Con il concetto di coesione economica intendiamo che l’Occidente deve muoversi all’unisono. Questo perché uno o due Stati non possono reggere una guerra economica contro la Cina. Gli stessi Stati Uniti avrebbero delle difficoltà sotto tale aspetto, per quanto siano gli unici che se lasciati soli potrebbero spuntarla. Con guerra economica ci riferiamo ai dazi o al blocco delle importazioni di quelle merci prodotte in Cina attraverso la concorrenza sleale, contro la quale il mondo civile non può competere. Il sistema produttivo sinico utilizza operai-schiavi, vieta i sindacati, ignora le costose norme di sicurezza per i lavoratori e quelle anti-inquinamento; tutte cose che da noi sono sacrosante, che hanno reso le nostre vite dignitose e che inevitabilmente fanno lievitare i costi di produzione. Ma, come abbiamo detto, se uno o due Stati dovessero attuare ritorsioni contro la concorrenza sleale cinese le contromosse di Pechino avrebbero conseguenze economiche assai gravi. Soprattutto perché la capacità di sopportazione dei disagi monetari è molto più forte in Cina che nelle volubili opinioni pubbliche occidentali. Pertanto occorre creare un organo sovranazionale che coordini le macro.azioni delle democrazie consolidate (Occidente più Giappone e pochissimi altri) onde creare un blocco coeso, una vera e propria copia della NATO delle origini, ma in versione economico-finanziaria contro cui nemmeno la Cina potrebbe fare la prepotente. Certo i puristi del liberismo economico (lo stesso troppo spesso vituperato liberismo che ha reso i popoli che lo hanno adottato più ricchi della storia dell’umanità) accuseranno questa proposta di dirigismo. Vi è del vero in tale accusa, ma dobbiamo essere realisti: di fronte ad una dittatura che avanza senza guardare in faccia niente e nessuno o le democrazie saranno compatte o… non saranno più.

La seconda via da percorrere è una nuova stagione interventista nel cosiddetto Terzo Mondo (termine antiquato ma che fa capire di cosa si sta parlando). Come tutti sanno la Cina, attraverso corruzione, investimenti spregiudicati e sostegno a regimi dittatoriali e spesso in crisi, ha enormemente ampliato la sua sfera di influenza in Africa, Sudamerica e Sudest asiatico. Questo per cercare di spezzare “l’anello di contenimento” creato dagli USA (che tratteremo nel prossimo punto) e per accedere alle materie prime di cui ha tanto bisogno (e di cui il sottosuolo cinese è incredibilmente scarso in rapporto alla sua immensità). Con interventismo si intende sostenere quei Governi che preferirebbero collaborare con l’Occidente piuttosto che con Pechino e, di converso, aiutare la “sostituzione” di quelli troppo favorevoli al Dragone giallo. Evitiamo i moralismi: la prima Guerra Fredda è stata combattuta e vinta anche con azioni usate da entrambe le parti quali terrorismo, colpi di Stato, rivoluzioni più o meno spontanee ed omicidi mirati. La Nuova Guerra Fredda non è diversa, chi non lo crede legga a proposito dei golpe organizzati da Pechino in Zimbabwe e Birmania, piuttosto delle influenze politiche cinesi in Laos e Cambogia, influenze che in Occidente sarebbero considerate ben oltre al cosiddetto neocolonialismo. Oggi i tentacoli della dirigenza comunista cinese si sono allungati a dismisura e Pechino è in vantaggio, per il semplice motivo che le dittature si muovono sempre per prime. L’Occidente deve quindi recuperare molto terreno perduto. Come? Sicuramente evitando di abbattere i dittatori utili (in nome di un utopistico universalismo democratico), ma piuttosto indebolendo i regimi filocinesi e sostenendo quelli che, per fede o per interesse, hanno preferenze per l’Occidente. Inutile dire che, anche in questo campo, gli Stati Uniti non devono essere lasciati soli, esattamente per gli stessi motivi già analizzati nel paragrafo riguardante l’economia mondiale.

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Passiamo ora alla creazione, o meglio all’ampliamento, della coalizione di contenimento. Su questo punto possiamo dire che molto è già stato fatto. Il celebre “anello di contenimento” altro non è che un elenco di Nazioni alleate degli USA perché terrorizzate dalla Cina e che si frappongono tra questa ed il mare aperto (non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono una sorta di isola continentale e che sono gli eredi diretti dell’Impero Britannico, pertanto predisposti ad una strategia talassocratica). Le Nazioni amiche in questione sono Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Vietnam. Oltre ovviamente alle anglosassoni Australia e Nuova Zelanda. Questa alleanza, palesemente, tocca molti nervi scoperti dentro la Città Proibita, pertanto la leadership di Pechino negli ultimi anni non è rimasta con le mani in mano. Lo dimostrano non solo il “colonialismo” politico-economico nel Terzo Mondo (e non solo) che abbiamo già trattato, ma anche il sostegno dato a tutti i nemici della Civiltà occidentale che ricorrentemente emergono dalle periferie del mondo. Parliamo di Cuba (che spera di sostituire il defunto protettore-finanziatore sovietico con quello cinese), Iran, Venezuela, Pakistan, in parte Sudan e Bangladesh. Tutti Paesi in situazioni a metà tra il difficile ed il disperato, in cui le leadership comodamente possono convogliare la rabbia delle masse contro i “capitalisti bianchi”, a condizione di avere un sostegno monetario esterno da pagare con le materie prime o la vassallizzazione.

Cosa manca pertanto all’alleanza anticinese per renderla oggettivamente inattaccabile? Essenzialmente due Stati (come abbiamo già scritto): India e Russia. La comunanza di interessi con l’India è relativamente semplice e, de facto, ormai trasformata in alleanza. L’ex perla del colonialismo britannico non solo combatte dal 1962 una guerra di confine strisciante contro la Cina, ma è anche tutto ciò che la leadership di Pechino teme. L’India, grazie alla lezione coloniale inglese, riesce ad essere una pur imperfetta democrazia di oltre un miliardo di abitanti. Questo smonta gran parte della retorica cinese riguardo all’impossibilità della democrazia tra le masse asiatiche. Inoltre tra pochi decenni la popolazione indiana supererà quella cinese, facendo sì che il subcontinente avrà masse povere/miserabili in grado di superare la Cina nella sua arma preferita, ossia la concorrenza sleale manifatturiera (sebbene non va dimenticato che i cinesi sono un popolo dallo spirito imprenditoriale assai più sviluppato degli indiani). Infine l’India non solo non è conquistabile nemmeno per il Dragone giallo, ma è anche enormemente più forte degli alleati regionali di Pechino, a cominciare dal Pakistan.

L’avvicinamento dell’Occidente con la Russia è invece più problematico, ma chi scrive ritiene che sia invitabile, come dimostrato dal summit di Ginevra di questi giorni (18 giugno 2021). Le ragioni sono varie. Intanto gli Stati Uniti hanno compreso che non si possono combattere due guerre contemporaneamente; non a caso già con Trump avevano iniziato le manovre di riavvicinamento dopo l’autolesionista stagione obamiana. Biden non sta facendo altro che seguire il tracciato trumpiano, ossia cercare un accordo con la Russia che sistemi le divergenze (Ucraina, Georgia, Bielorussia, esportazione d’armi russe a Paesi nemici dell’Occidente e doppiopesismo moraleggiante dell’Occidente stesso) e sia propedeutico all’associazione di Mosca alla NATO (ricordiamo sempre con una lacrima il summit di Pratica di Mare). I russi, a loro volta, sono degli spietati pragmatici che sanno valutare e pesare le minacce al loro interesse nazionale. Possono avere tutti i contrasti del mondo con l’Occidente, ma sono e si sentono europei, esattamente come è europea la colonna portante della società nordamericana. Pertanto le affinità e le compatibilità russe con l’Occidente saranno sempre maggiori a quelle con la Cina, la quale ai loro occhi non è altro che la riproposizione della mortale minaccia gengiskhanide (che rischiò seriamente di cancellare la Russia dalla storia). Cosa sono la Russia e la Cina? Due antichi imperi che, al netto di lucrosi accordi commerciali, si temono e si odiano, in particolare per le malcelate ambizioni cinesi sulla Siberia: un territorio dalle risorse naturali immense, molto più grande degli Stati Uniti ma meno popoloso del Canada. Un boccone irresistibile per il Dragone giallo, che le è territorialmente contiguo e che potrebbe colonizzarla in dieci anni con cento milioni di cinesi etnici, rendendola sua per sempre. Tutte queste cose sono ben chiare alla leadership del Cremlino, che è sempre stata spietata, ma mai sprovveduta. Con Trump prima e Biden adesso pare che, finalmente, il quadro sia divenuto più chiaro anche presso la leadership della Nazione capofila dell’Occidente.

Concludiamo con l’intelligence. Storicamente i servizi segreti delle dittature sono più spregiudicati dei quelli delle democrazie. Ciò gli garantisce un maggior spazio di manovra, ma è anche un segno di debolezza. Le dittature devono vincere, poiché, in assenza della valvola di sicurezza elettorale, ogni non-vittoria può aprire una crisi di sistema. Le democrazie invece hanno sì la debolezza di politici in perenne ansia da prestazione (leggasi rielezione), ma possiedono società molto più stabili. Questo perché un governo fallimentare o sfortunato può cadere democraticamente o essere democraticamente sconfitto alle elezioni successive. Questo significa che, per mettere in crisi il sistema di governance cinese, l’intelligence occidentale deve soffiare sul malcontento interno al Dragone, tipico di ogni dittatura. Non è un caso che negli ultimi dieci anni la repressione interna cinese non ha fatto che indurirsi. Crescita economica diseguale, repressione del libero pensiero, divieto del dissenso ed inizio di un potenzialmente devastante squilibrio demografico. Tutto ciò mette la leadership cinese di fronte ad un nemico pericolosissimo: l’informazione interna. Se l’Occidente è vulnerabile alle cosiddette fake news (prima sovietiche e ora cinesi), la Città Proibita trema di fronte alle real news che le democrazie potrebbero mostrare alle masse dell’Impero di Mezzo.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).