di Fabio Bozzo

La produzione di energia controllata tramite la fusione nucleare è questione di tempo. I recenti progressi sperimentali presso l’ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor) situato in Francia, presso il NIF (National Ignition Facility) del Lawrence Livermore National Laboratory in California e presso l’Eurofusion dell’impianto Jet, ad Oxford nel Regno Unito fanno sognare di avere entro pochi decenni le prime centrali nucleari aventi questa tecnologia. Quando (non se) ciò avverrà la rivoluzione geopolitica sarà portentosa. L’umanità disporrà finalmente di una fonte d’energia potenzialmente illimitata ad impatto ecologico quasi zero ed il crollo dell’importanza dei combustibili fossili stravolgerà gli equilibri di potere mondiali. La Russia dovrà decidere se entrare del tutto nella civiltà occidentale o divenire una satrapia vassalla dell’Asia come ai tempi del giogo mongolo. Arabia Saudita, Iran, Iraq e le monarchie del Golfo Persico torneranno ad essere periferia della periferia del mondo, al pari della Nigeria e degli altri produttori africani di idrocarburi. Israele, automaticamente, avrà gioco molto più facile a perseguire il suo interesse nazionale senza che l’Occidente lo ostracizzi sotto il ricatto petrolifero arabo ipocritamente mascherato di umanitarismo. Per la stessa ragione l’Europa avrà meno problemi (se lo vorrà) a bloccare le ondate migratorie dal Sud del mondo che ne stanno stravolgendo l’equilibrio etno-sociale. In sintesi la rivoluzione energetica porterà a tanti e tali stravolgimenti che risulta quanto meno azzardato fare previsioni sulle sue precise conseguenze geopolitiche.

Tuttavia l’analisi che cercheremo di affrontare non è geopolitica, ma militare. Ogni strumento, anche un martello, può avere un doppio uso, civile e bellico. Ciò è vero, come tutti ben sappiamo, soprattutto per l’atomo. Finora l’uomo è riuscito ad imbrigliare l’energia nucleare nelle centrali a fissione e nelle bombe sia a fissione (come le atomiche di Hiroshima e Nagasaki, dette bombe A) che a fusione (la bomba all’idrogeno o bomba H). La caratteristica delle bombe a fissione è la loro enorme capacità distruttiva ed il susseguente avvelenamento radioattivo. Tale contaminazione è devastante per la vita nelle zone vicine al Ground Zero, ma, trasportata da vento, pioggia e volendo dalle falde acquifere, può arrecare danni tremendi e di lunga durata temporale anche in zone lontane dal luogo dell’esplosione.

Bomba A, bomba H

La bomba H ha caratteristiche diverse. Il suo potenziale distruttivo è esponenzialmente maggiore a quello della bomba atomica e potenzialmente non ha un limite di potenza raggiungibile (vedasi il “folle” esperimento sovietico della Bomba Zar). Tuttavia genera una ricaduta radioattiva assai minore delle bombe a fissione, poiché durante la reazione a catena il suo combustibile nucleare viene quasi completamente consumato nell’esplosione. Fatto sta che, ad oggi, anche le bombe a fusione producono una certo livello di fallout radioattivo. Questo perché, per far esplodere una bomba H, ad oggi dobbiamo creare una piccola esplosione a fissione, la quale dà il via alla reazione di fusione dei nuclei di idrogeno. Questo rende le armi a fusione delle bombe a due stadi, con il primo stadio, quello a fissione, che per quanto piccolo impone una produzione di radioattività residua. La bomba a “fusione pura”, un sogno militare e politico fin dagli anni ’50, ancora sfugge agli scienziati. Ma si tratta di questione di tempo e, di pari passo con l’avvicinarsi della nuova era energetica nucleare pulita, risulta chiaro che anche la versione militare della nuova tecnologia vedrà la luce.

A questo punto dobbiamo fare un piccolo salto indietro. Perché il terzo conflitto mondiale non è mai deflagrato, pur essendo bello e apparecchiato già nel 1950 con lo scoppio della Guerra di Corea? Essenzialmente per il terrore che le armi atomiche incutevano. Le leadership statunitense  e sovietica (pur con differenti visioni per le quali rimandiamo al testo 1957, la fine dell’innocenza di Daniele Biello) per cinquant’anni ebbero la consapevolezza che uno scontro totale avrebbe cancellato entrambi i contendenti e gran parte della vita sulla Terra. La guerra, intesa come conflitto sine missione tra USA ed URSS, aveva annullato se stessa.

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Ma tale olocausto nucleare era valutato inaccettabile non tanto dalla potenza delle esplosioni generate dalle bombe A prima ed H poi, quanto dalla loro ricaduta radioattiva. Gli strateghi delle due superpotenze, soprattutto quelli sovietici, sarebbero stati pronti ad affrontare perdite umane e materiali inconcepibili, se queste avessero ragionevolmente garantito la vittoria assoluta. La contaminazione radioattiva invece, con la sua durata ed i suoi orrori noti anche al grande pubblico, trasformava la guerra in quello che gli analisti americani definirono teoria del MAD (pazzo in inglese, ma anche acronimo di Mutual Assured Destruction). Le radiazioni, garantendo la fine della civiltà e forse della vita evoluta sulla Terra, spazzarono via l’assioma di von Clausewitz secondo cui “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Dalla guerra totale i due blocchi non avrebbero più potuto nemmeno sperare di ottenere un vantaggio politico, ma nell’era nucleare la guerra totale non sarebbe stata possibile senza l’utilizzo delle bombe A ed H. Tutto ciò rese lo scontro diretto impossibile e, paradossalmente, garantì cinquant’anni di pace, con i conflitti della Guerra Fredda relegati alle zone periferiche del pianeta e mai (ufficialmente) con soldati sovietici e statunitensi impegnati in scontri diretti.

Una bomba “pulita”?

Tutto questo cambierà quando verrà inventata la bomba a “fusione pura”, ovvero un ordigno dal potere distruttivo potenzialmente illimitato ma generante scarsa o nulla ricaduta radioattiva. L’avvento di quella che possiamo definire “bomba perfetta” renderà l’arma termonucleare utilizzabile sul campo a livello tattico, poiché dopo l’immane deflagrazione che annienta le armate nemiche sarà possibile inviare le proprie forze convenzionali ad occupare il territorio piallato dall’esplosione. Parimenti coloro che aspirano a compiere un genocidio troveranno interessante un simile strumento, in grado di cancellare enormi comunità senza avvelenare la terra che si vuole colonizzare.

Senza la presunzione di anticipare i furiosi dibattiti accademici, che cercheranno di stabilire se la “bomba perfetta” dovrà essere considerata un’arma di distruzione di massa o semplicemente un ordigno più potente degli altri, abbiamo una semplice certezza: la  “perfetta”, inevitabilmente, porterà ad una sua corsa agli armamenti, in cui tutti gli Stati che potranno permettersi la spesa (assai elevata) faranno il diavolo a quattro per procurarsi la nuova arma. Inutile sperare che l’ordigno in questione possa rimanere appannaggio delle democrazie, poiché è impossibile rimettere il genio nella lampada. Possiamo solo sperare che le democrazie, in sintesi i Paesi della NATO o comunque gravitanti intorno all’alleanza occidentale, riescano per qualche anno a mantenerne il monopolio, magari dopo averne mostrato in mondovisione le potenzialità in un test nel cuore del deserto australiano o sull’isola di Bouvet. La nostra preferenza per le democrazie nasce dal fatto che per quattro anni, dall’estate del 1945 all’estate del 1949, gli Stati Uniti ebbero il monopolio assoluto dell’arma atomica e si astennero da ogni aggressione. È superfluo immaginare cosa sarebbe successo se tale monopolio fosse stato nelle mani dei nazisti, dei sovietici o del Giappone del generale Tojo.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).