di Gianmaria Pisanelli

In pochissimi anni, tre o quattro, si è instaurato un nuovo ordine intellettuale antidialettico che demonizza tutto ciò che lo minaccia. Liste nere appaiono ovunque. Sul clima, sulla razza, sul sesso, sull’islam, sulla storia. Purifichiamo. Escludiamo. Linciamo. Esiliamo”.
Giulio Meotti, I nuovi barbari, Edizioni Lindau, 2023

 

Nel commentare le cause dell’alluvione in Emilia Romagna, un docente di filosofia politica presso la LUISS di Roma – per la verità non molto noto al grande pubblico – ha rilasciato alcune dichiarazioni piuttosto sconcertanti, affermando che “le omissioni e i ritardi che portano al disastro di oggi sono in parte anche colpa dei negazionisti. Quei morti sono anche colpa loro”. E aggiungendo che contro il negazionismo climatico “la reazione deve essere ferma e si deve spingere, in certi casi, anche alla repressione penale“. Non stiamo parlando di un esponente politico e nemmeno di un cattedratico di fama, quindi si potrebbero considerare queste singolari esternazioni quali il frutto di un pensiero isolato e tutto sommato irrilevante nel contesto del dibattito sul grande tema del c.d. cambiamento climatico. Ma si farebbe un clamoroso errore. Quelle dichiarazioni, al limite del provocatorio, assolvono in realtà al ruolo della classica Finestra di Overton, opportunamente aperta per permettere in tempi successivi a soggetti più autorevoli di riprenderne i contenuti e rilanciarne una versione più digeribile, tale da poter essere discussa e magari confezionata in forma di proposta politica.

Fa caldo, apriamo la Finestra di Overton

E infatti, pochi giorni dopo, due dei principali organi di informazione del mondo progressista, quali Domani e Repubblica, si sono puntualmente dedicati a illustrare le ragioni per cui quella ipotesi in apparenza temeraria fosse in realtà una risposta opportuna e anzi doverosa a quanti si ostinano a sollevare dubbi sulle cause del cambiamento climatico e sulle strategie destinate a combatterlo. Più che sul merito della questione, che pure ovviamente riveste importanza fondamentale nel contesto politico e sociale di questa fase storica, interessa in questa sede svolgere qualche riflessione sul metodo e, in particolare, sulla pericolosa deriva censoria e intollerante che ha assunto la propaganda del pensiero unico. L’uso – ma forse meglio sarebbe definirlo abuso – dell’aggettivo “negazionista” è un preciso quanto inquietante segnale di questa tendenza illiberale, che mira non tanto alla confutazione delle tesi critiche o comunque dissonanti, quanto alla delegittimazione di chi se ne fa portatore.

È abbastanza noto, ma sembra opportuno ricordarlo, che l’origine di questo termine risale alle tesi revisioniste elaborate da alcuni storici e intellettuali (Robert Faurisson e David Irving i più famosi), riguardo all’Olocausto e alle responsabilità del regime nazista nello sterminio della popolazione ebraica. Tesi che sono state confutate e respinte, sulla base di innumerevoli documentazioni e testimonianze, da pressoché tutta la comunità degli storici. A seguito delle polemiche suscitate dalle affermazioni dei revisionisti, e dalla reazione unanime del mondo accademico e politico, nonché ovviamente delle comunità ebraiche, sono state assunte in molti paesi europei iniziative per sanzionare penalmente il comportamento di chi neghi o giustifichi il genocidio nazista, attraverso opere di stampa o altre forme di pubblicazione. In Italia, per questa ipotesi, la legge n. 149 del 2016 ha introdotto una specifica aggravante al reato di propaganda razzista, di istigazione e di incitamento di atti di discriminazione commessi per motivi razziali, in forza della quale è prevista la pena della reclusione da due a quattro anni per chi si renda autore di propaganda fondata, in tutto o in parte, sulla negazione della Shoah. Una fattispecie che rientra nella famiglia dei reati di opinione, considerati da sempre con una certa perplessità dai giuristi più sensibili alle garanzie costituzionali, in particolare con riferimento all’articolo 21 della Carta, che tutela la libertà di manifestazione del pensiero.

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Tuttavia, la scelta di sanzionare penalmente questo particolare tipo di revisionismo storico trova legittimazione proprio nella considerazione delle abnormità dell’Olocausto e nella ferma intenzione del legislatore di precludere ogni forma di attenuazione del giudizio storico e umano su tale tragedia. La specificità di questa figura di reato, collegata indissolubilmente a un evento storico ben definito, attribuiva peraltro al negazionismo un significato altrettanto specifico e inequivocabile.

Quando inizi a censurare, sai dove inizi ma non dove finirai

Nessuno, fino a pochi anni fa, avrebbe definito negazionista un interlocutore per le sue opinioni o per le sue proposte politiche. Ma la deriva pericolosamente totalitaria assunta dai media e dagli intellettuali progressisti, ormai megafoni di una ideologia sempre più aggressiva, e la loro allergia al confronto con idee diverse, stanno producendo una autentica mutazione genetica del linguaggio, usato sempre più spesso per delegittimare e censurare le posizioni non allineate alla narrazione dominante. Il biennio della pandemia è stato in tal senso un momento rivelatore di queste tendenze profondamente antidemocratiche, ed è proprio in quel contesto che si è cominciato a fare largo uso dell’epiteto di negazionista del Covid, e non solo per colpire i cosiddetti “no vax”, cioè quanti rifiutavano di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid, ma anche tutti coloro che esprimevano dubbi e perplessità sulle strategie adottate dal governo per contrastare l’emergenza sanitaria.

Negazionismo quindi come epiteto diffamatorio, destinato a demonizzare e a togliere credibilità presso il grande pubblico a qualunque posizione di dissenso. Dal negazionismo sanitario a quello climatico il passo è stato breve e perfino scontato, ed ecco dunque i reiterati proclami di giornalisti mainstream e di agit prop di varia estrazione, secondo i quali non si può dibattere sul cambiamento climatico, né sulle sue cause, e chi si azzarda a farlo è, appunto, un bieco negazionista, cui va tolto il diritto di parola. Nessuna sorpresa dunque se la “provocazione” di un professore della Luiss viene subito rilanciata da prestigiosi organi di stampa, i quali argomentano sulla opportunità di sanzionare penalmente chi renda pubbliche le proprie perplessità sui dogmi del cambiamento climatico. Se quindi il professor Franco Prodi sostiene che le cause dell’alluvione in Emilia Romagna sono principalmente da individuarsi nelle gravi carenze di cura e manutenzione del territorio e nelle mancate opere di canalizzazione e di consolidamento degli argini dei fiumi, non basta più togliergli il microfono per evitare che diffonda le sue “bizzarre” opinioni, occorre anche attivare la procura competente che possa iscriverlo nel registro degli indagati per “negazionismo climatico aggravato”.

La verità è che sotto i nostri occhi, dentro quella società occidentale che un tempo rappresentava un modello, sia pure imperfetto, di democrazia, sta affermandosi una ideologia nichilista e profondamente anti umana, che rigetta la libertà di pensiero e il rispetto delle idee, e pretende un’adesione acritica ai suoi dogmi. E il politicamente corretto, da vezzo linguistico di minoranze sedicenti illuminate, si trasforma così in vero e proprio statuto obbligatorio, che informa e pervade tutti gli ambiti del vivere, sotto il controllo minuzioso di solerti censori pronti a colpire con ogni mezzo i renitenti.

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Laureato in Giurisprudenza (Università Sapienza), dopo una breve esperienza come funzionario del Ministero del Lavoro è stato consigliere parlamentare alla Camera dei Deputati per oltre trent'anni.