di Gianmaria Pisanelli

“L’Occidente e le democrazie devono guardare alle primarie americane come l’inizio di una straordinaria e spettacolare resa dei conti tra populismo e democrazia che riguarda ognuno di noi”. (M. Molinari, La Repubblica)

In vista delle elezioni americane del 2024, si moltiplicano gli allarmi di politici e opinionisti di sinistra per i rischi che correrebbe la democrazia in caso di un successo di Trump. Ciò che temono questi autorevoli pensatori è che il popolo americano, come già ha fatto nel 2016, possa eleggere un presidente che loro considerano non un semplice avversario ma un nemico giurato, in quanto portatore di un pensiero populista e nazionalista e avversario dichiarato della ideologia globalista e wokeista.

Senza minimamente entrare nel merito della figura controversa dell’imprenditore e miliardario repubblicano, e delle sue iniziative spesso discutibili e talvolta difficilmente difendibili, l’aspetto interessante di queste polemiche sta nella assoluta dissonanza fra ciò che viene denunciato e la realtà dei fatti. Nei quattro anni di presidenza Trump non sono state proposte riforme autoritarie o comunque contrarie alla costituzione, né le regole procedurali e istituzionali che presidiano la democrazia statunitense sono mai state messe in discussione. In altri termini, non è stato sferrato alcun ‘attacco’ alla democrazia.

Quello che viene enfaticamente presentato dai progressisti come un pericolo per la democrazia va inteso in realtà come il rischio che possa prevalere, come è fisiologico in un sistema retto da libere elezioni, un loro avversario. A ben vedere, un assunto aberrante, che tuttavia vediamo rilanciato da anni ogni volta che si presentano in qualche tornata elettorale personaggi estranei e ostili alle quei poteri globalisti di cui la sinistra è garante dichiarata. È successo per la Le Pen in Francia, per Orban in Ungheria, e ovviamente per Giorgia Meloni nel nostro Paese, e il copione è sempre lo stesso: se vincono loro, vuol dire che il popolo ha votato male, che non è maturo né culturalmente preparato a esercitare in modo adeguato il diritto di voto.

A questo orientamento sempre più marcato e ormai onnipresente su tutta la stampa mainstream italiana e internazionale, ha fornito una base teorica e una dignità culturale il filosofo americano Jason Brennan, nel suo libro del 2016 “Contro la democrazia”. La versione italiana del libro venne pubblicata nel 2018, quindi nel pieno del periodo traumatico che aveva fatto seguito all’annus horribilis delle élite globaliste (successo del referendum sulla Brexit ed elezione di Trump), caratterizzato da reazioni rabbiose e classiste contro il popolo “che non sa votare” e i leader sovranisti “che mettono in pericolo la democrazia”.

Gli intellettuali di sinistra erano impegnati in quella fase a schernire l’ignoranza degli agricoltori britannici o l’analfabetismo primordiale dei redneck dell’America più profonda, cui contrapponevano la saggezza e la capacità dei ceti abbienti e metropolitani di scegliere i candidati più illuminati e dediti al bene comune, cioè quelli progressisti.

Di qui l’emergere di proposte solo apparentemente provocatorie, come quella della “patente per votare”, scaturita dal pensiero profondo e sofferto di autentici guru della sinistra nostrana (fra i quali Michele Serra e Corrado Augias), che lo individuavano come uno strumento necessario per limitare l’elettorato attivo ai competenti e ai consapevoli azzerando in questo modo i rischi di governi sovranisti o comunque ostili ai poteri sovranazionali, Unione europea in primis.

D’altronde, se c’è una costante nel pensiero nel mondo progressista italiano degli ultimi 30 anni, è la scarsissima fiducia negli elettori e in generale dei cittadini italiani, che non a caso lo ha indotto più volte a proporre e sostenere governi tecnici, cioè formati da personaggi estranei alla politica e quindi sottratti al giudizio e al controllo democratico. Da Amato a Ciampi, da Monti al Draghi del 2021, la sinistra ha sempre guardato con estremo favore a questo tipo di  esecutivi, proprio per la loro distanza dalle esigenze e dalle aspettative dei cittadini, e per il loro impegno nella implementazione di programmi per lo più dettati o addirittura predisposti a Bruxelles, e generalmente contrastanti con gli interessi nazionali.

L’idea di fondo del ceto mediatico-politico progressista è quella per cui le grandi scelte strategiche, a partire da quelle economico-sociali-ambientali, ma in seconda istanza anche quelle attinenti i c.d. diritti civili, debbano essere esclusivo appannaggio di una élite di tecnocrati, capaci di trascendere gli interessi immediati del popolo per proiettarsi su obiettivi di lungo periodo, finalizzati al benessere dell’intero pianeta. E in tal senso l’architettura istituzionale della Unione europea risponde largamente a questa esigenza, con un Parlamento che ha scarsissimi poteri di iniziativa e sostanzialmente destinato a ratificare le decisioni della Commissione, organo decisionale formato da politici e burocrati nominati dai governi e che non rispondono in alcun modo ai cittadini.

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Ma, naturalmente, se anche il modello di Bruxelles soddisfa le aspirazioni elitiste del mondo progressista, non altrettanto può dirsi dei sistemi di governo nazionali, ancora legati al rito anacronistico del voto popolare. Ed ecco dunque che le proposte di studiosi come Brennan tornano molto utili, specie laddove si ancorano a considerazioni di apparente buon senso: “Se ci rifiutiamo di tollerare una pratica medica o il lavoro dell’idraulico privi di conoscenza e competenza, dovremmo trattare con lo stesso metro il votare inconsapevolmente”. (Il sottinteso, ovviamente, è che a votare consapevolmente siano solo gli elettori di sinistra).

I veri rischi per la democrazia, in realtà, nascono proprio quando intellettuali, veri o presunti, avanzano idee come quella di subordinare il diritto di voto a esami che accertino la preparazione culturale, almeno nella misura in cui queste suggestioni siano in grado di diffondere l’idea deleteria per cui le scelte politiche di un Paese siano questioni troppo serie per essere affidate ai cittadini.

In definitiva, nel momento in cui individua nel popolo votante il peggior pericolo per la democrazia, emerge con forza nel discorso progressista tutta la recente deriva ideologica di marca wokeista, non a caso nata negli Stati Uniti, e poi tracimata in Europa. L’intolleranza per le tesi degli avversari, la convinzione manichea di essere impegnati in una lotta mortale contro il male dei nazionalismi e dei populismi, la delegittimazione morale di chiunque metta in discussione i nuovi dogmi (dalla sottrazione della sovranità ai singoli Paesi al cambiamento climatico di origine antropica, dal totalitarismo sanitario alla educazione gender nelle scuole), costituiscono altrettanti pilastri teorici della sinistra, sempre più in sintonia con gli obiettivi dichiarati delle èlite finanziarie che concentrano nelle proprie mani le leve del potere reale. E giacché questi obiettivi non sembrano molto promettenti né auspicabili per la stragrande maggioranza dei cittadini occidentali, questi finiscono inevitabilmente per riversare i propri consensi elettorali a quelle forze politiche che si presentano come alternative al sistema.

Di qui risultati come quello del 2016, quando, malgrado l’opera di meticolosa demonizzazione dei media e l’aperta ostilità dell’establishment mediatico e politico, Trump ha battuto la favoritissima Hillary Clinton, o anche del 2020, quando ha perso di misura contro Biden, raccogliendo oltre 74 milioni di voti, il numero di consensi più alto mai conseguito da un candidato non vincitore.

Il divario tra il modello di società perseguito da questa potente casta di illuminati, o autoproclamatisi tali, e gli interessi del 98% dei cittadini si fa sempre più incolmabile, e il dibattito politico viene inevitabilmente condizionato da questa circostanza. Gli allarmi lanciati quasi quotidianamente dagli editorialisti quando ci si avvicina a importanti consultazioni elettorali dove i vituperati populisti possono realisticamente aspirare a un successo, hanno dunque ben poco a che vedere con rischi di torsioni autoritarie o anti democratiche, ma rivelano, molto semplicemente, la loro preoccupazione per i possibili intralci o ritardi che potrebbero derivarne alla realizzazione di quel mondo – per loro – idilliaco, in cui la gente “non avrà nulla e sarà felice”.

gianmaria pisanelli
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Laureato in Giurisprudenza (Università Sapienza), dopo una breve esperienza come funzionario del Ministero del Lavoro è stato consigliere parlamentare alla Camera dei Deputati per oltre trent'anni.