di Francesco Erario

Gli studi post-coloniali

Per ‘post-colonialismo’ si intende un’area di studi e di ricerca teorica focalizzata sui cambiamenti e sulle conseguenze sociali e culturali, derivanti dalla fine del colonialismo europeo. La corrente dei Post Colonial Studies ha posto sotto la propria lente le realtà sociali, sia dei Paesi colonizzatori sia dei Paesi colonizzati, cercando di mettere in luce i rapporti di forza tra le due realtà (verosimilmente sbilanciati in favore dei primi sui secondi). Per capire il peso che la visione post-colonialista ha nella narrazione della Sinistra occidentale, è utile prendere in considerazione il noto contributo che Edward Said ha dato a tale ambito di studi.

Edward Said e la critica all’orientalismo

Edward Said è forse il principale esponente dei Postcolonial Studies americani. Nato nel 1935 e contemporaneo di Stuart Hall, ha in comune con l’intellettuale giamaicano il fatto di provenire da un territorio all’epoca colonia inglese: Gerusalemme. Con esso condivide anche l’interesse per il pensiero di Antonio Gramsci, con grande attenzione al noto concetto di “egemonia culturale”.

Tra i suoi numerosi lavori, risulterà interessante ricordare il saggio Orientalism del 1978, in cui l’autore critica la visione che l’Occidente ha del mondo orientale. Una visione ritenuta figlia di stereotipi, false credenze e colpevole ignoranza più o meno diffusa, alla cui base Said individua una prospettiva marcatamente eurocentrica e ampiamente immersa nelle logiche coloniali. Un punto di vista sostenuto lungo tutto il libro attraverso numerosi riferimenti a testi occidentali, in un continuum di narrazioni “scritte dai vincitori”, che vincitori non sono nemmeno, ma rappresentano soltanto sé stessi, in un processo collettivo di definizione di un “Sé europeo”. Un processo collettivo in cui gli occidentali si sarebbero automaticamente posti su un piedistallo e da cui giudicano l’altro, l’Oriente “inferiore”.

La base per la sua analisi risiede proprio nelle opere dei maggiori scrittori e intellettuali occidentali, dalla Francia all’Inghilterra e agli Stati Uniti, ‘specializzati’ nella descrizione e nella comprensione delle culture e delle civiltà non europee. Nell’opera è evidenziato anche come, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, l’eredità dei caduti imperi coloniali europei sia passata agli USA, perpetuatori di questa visione “mistificatrice”.

In Orientalism, l’autore evidenzia come questa immagine abbia alimentato la percezione, tutta occidentale, di un Oriente “naturalmente” poco incline a valori come “civiltà” e “razionalità”, di cui invece europei e statunitensi si sentono i possessori.

L’identità come costruzione

Nel libro, in linea con la sua corrente di studi, la questione della non-esistenza di costruzioni identitarie stabili ed immutabili nel tempo è un punto centrale, e la mancata consapevolezza di questo aspetto rischia di far incappare nella produzione di teorie e pratiche simili, nella loro falsa natura, a quelle orientaliste: “[…] il fatto che l’identità umana non solo non sia naturale e stabile, ma sia il prodotto di una costruzione, a volte anche di un’invenzione radicale”.

Nella postfazione all’edizione del 1994, l’autore traccia un chiaro ritratto del risultato del suo lavoro, in cui equipara, di fatto, il valore sostanziale di qualsiasi produzione culturale, sottolineando come nessuna cultura può dirsi superiore alle altre, men che meno quella occidentale ed europea:

Uno dei grandi progressi della moderna teoria culturale sta nell’aver compreso (cosa accettata in modo quasi unanime) che le culture e le civiltà sono ibride ed eterogenee e […] tanto interrelate e interdipendenti da mettere in crisi qualunque descrizione unitaria o semplicistica della loro individualità.

In linea con le prospettive dei Cultural Studies del Vecchio Continente, lo studioso sembra ‘salvare’ solo emigrazioni e mescolanze di popoli, riducendo l’intera civiltà occidentale ad una mera finzione ideologica, priva di fondamenta, così come la sua presunta superiorità:

Com’è possibile oggi parlare di «civiltà occidentale» se non in larga parte nei termini di una finzione ideologica che assegna una specie di distaccata superiorità a una manciata di idee e valori, nessuno dei quali ha un grande significato all’esterno della storia di conquiste, emigrazioni, viaggi e mescolanze di popoli che ha dato alle nazioni occidentali le loro attuali identità disomogenee?

Un Europa fatta di Nazioni con Identità disomogenee, ma che comunque restano ‘non comprensibili’ all’interno di nessun quadro culturale d’insieme europeo. Se, da un lato, pare individuare e definire, nella loro eterogeneità o omogeneità, “culture” e “razze”, dall’altro Edward Said pare poi rifiutarne, se non proprio l’esistenza, quantomeno una netta caratterizzazione distintiva:

E questo era uno dei messaggi impliciti in “Orientalismo”: l’idea che ogni tentativo di collocare a forza persone e culture in razze o essenze distinte non solo faccia emergere tutte le rappresentazioni sbagliate e le falsificazioni che ne derivano, ma metta in evidenza anche il modo in cui la comprensione si allea con il potere di produrre entità come l’«Oriente» o l’«Occidente».

Giunti a questo punto apparirà evidente come, nel pensiero dello studioso e accademico nato nella Palestina coloniale inglese, sia contenuto moltissimo dell’ideologia e del sistema valoriale di cui le varie anime della Sinistra italiana ed occidentale si fanno oggi portatrici.

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La risonanza che a Sinistra hanno avuto le sue opere (Orientalism in primis) è ancora oggi riscontrabile nel modo in cui sia diffusissimo un comune sentimento di vergogna mista a senso di colpa, proprio tra esponenti e militanti della Sinistra europea: ‘vergogna’ mista a ‘senso di colpa’ verso la propria appartenenza nazionale.

Le tesi di Edward Said sembrano adattarsi egregiamente alla visione sovranazionale e globale della Sinistra contemporanea europea, in cui sono molto frequenti dichiarazioni di rifiuto e di negazione dell’identità storica nazionale. Dalla rinuncia alle tradizioni popolari nazionali all’ossessione per le istituzioni cristiane, la Sinistra chiama continuamente i cittadini europei a manifestare il proprio rifiuto verso sé stessi, come obbligo morale, per l’appunto, verso Asia ed Africa. Un debito collettivo che, secondo le teorie e le pratiche della Sinistra, gli europei di oggi devono pagare ad Oriente e Sud del mondo, senza distinzioni e senza nessun apparente limite.

Un esempio attuale e significativo di questo senso di colpa è individuabile nelle parole di Carola Rackete, attivista militante e membro della ONG “Sea Watch“, impegnata in attività marittime di facilitazione dell’immigrazione (principalmente non autorizzata) dalle coste del Nord Africa verso l’Europa:

La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare 3 università, a 23 anni mi sono laureata. Sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito l’obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità.

Per la protagonista del noto episodio di speronamento di una motovedetta nel porto di Pozzallo, l’essere bianchi ed europei pare, a tutti gli effetti, una sorta di peccato originale collettivo e transgenerazionale, da espiare recitando un moderno ‘mea culpa’ a capo chino, nel riflesso dello specchio del proprio scricchiolante benessere. Dal rifiuto di sé al vero e proprio “Occidentalismo”.

Dall’orientalismo all’occidentalismo

Sempre nelle conclusioni, il pensatore e studioso Said manifesta chiaramente quale sia lo scopo di Orientalism:

Se questo libro potrà avere in futuro qualche utilità, essa consisterà nel contribuire a tale sfida, e nel servire di monito: sistemi di pensiero come l’orientalismo, discorsi fondati sul potere, finzioni ideologiche – limitazioni che l’uomo da sé si pone – sono sin troppo facili da costruire, difendere e utilizzare. Soprattutto spero di avere chiarito al lettore che non credo che la risposta all’orientalismo possa consistere nell’«occidentalismo».

Occidentalismo, quindi, come deriva culturale uguale a quella orientalista ma di segno opposto, da cui lo stesso Said sembra distanziarsi nell’edizione del 1994. Una tendenza anti-occidentale tout court che sembra oggi, dopo 27 anni, essere più forte che mai: la supponenza e la sufficienza, con cui esponenti e militanti della Sinistra italiana ed europea sono continuamente soliti rivolgersi verso chi da essi dissente, sono senza dubbio lontani dal monito levato da Edward Said. Atteggiamenti che si manifestano specialmente sugli attualissimi temi dell’immigrazione e delle diversità culturali, immancabilmente posti sotto la ‘corazza’ del politicamente corretto

Sarebbe superfluo ricorrere ad una casistica del comportamento sopracitato, anche per via dello sterminato oceano di materiali tranquillamente reperibili on-line e off-line. Fin troppo facile sarebbe riportare dichiarazioni di esponenti di sinistra che, alla prima critica su tali temi, additano immediatamente il proprio interlocutore come “fascista” e “razzista”.

Una riduzione ed una semplificazione stereotipante e diffamante, operata costantemente a sinistra, che (per chi scrive) è anche il perno di una strategia delegittimante di qualunque opposizione ed inserita in un più ampio quadro egemonico-culturale, che vede oggi protagonista una Sinistra diventata establishment. Una Sinistra, specialmente quella italiana, che sembra oggi padroneggiare tecniche e mezzi un tempo ricondotti a conservatori e reazionari, proprio da uno dei suoi tanto più nobili quanto dimenticati Padri: Antonio Gramsci.

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Laurea triennale in Comunicazione, editoria e giornalismo (Università Sapienza di Roma), laurea magistrale in Comunicazione d'impresa (Università di Salerno), corso post-laurea in Economia (Università di Parma). Si occupa di marketing e sviluppo commerciale in Italia per una piccola impresa estera. Appassionato di sociologia, media e politica, studia i fenomeni culturali e subculturali emergenti tra i giovani occidentali.