di Fabio Bozzo

Il 6 maggio 2021 verrà ricordato come una data di una certa importanza per il Regno Unito e, forse, per l’Europa. In tale giorno infatti si sono svolte contemporaneamente le seguenti elezioni: parlamenti autonomi scozzese e gallese, sindaco di Londra, suppletive per il collegio parlamentare di Hartlepool, 39 Commissari per la Polizia ed il Crimine (una specie di prefetti con molto meno potere dei nostri) e le cosiddette elezioni locali. Queste ultime sono le consultazioni con cui i cittadini britannici eleggono un variegato insieme di amministrazioni di secondo livello, quali le Autorità Unitarie (responsabili della gestione dei servizi urbani), i Consigli Metropolitani delle grandi città (simili ai Municipi di Milano o Genova), gli equivalenti Consigli dei Distretti di Londra, le Contee Metropolitane e i Distretti Non Metropolitani. Come si vede una complessità istituzionale non da poco, specie per noi europei continentali, abituati alla verticalizzazione del potere in stile centralista giacobino. Le competenze amministrative di così tanti enti sono assai variegate ed importanti, quali rifiuti, trasporti, polizia, istruzione, servizi sociali, riscossione delle imposte comunali, edilizia ed altro ancora. In pratica, per una votazione o per l’altra, è stato chiamato alle urne pressoché l’intero corpo elettorale britannico, in un vero e proprio test sull’operato del Governo conservatore eletto a larga maggioranza nel 2019.

Procediamo con ordine, attuando una breve analisi di un voto tanto complesso e delle sue potenziali conseguenze, lasciando per ultimo il “caso Scozia”, viste le implicazioni che esso potrebbe comportare nelle relazioni tra Gran Bretagna ed Unione Europea. L’elezione dei 39 Commissari per la Polizia ed il Crimine ha visto la vittoria di 30 candidati sostenuti dai conservatori (più 10 rispetto all’ultima tornata), 8 laburisti (meno 6) ed 1 autonomista gallese (meno 1). Un risultato senza appello, che dimostra quanto la Gran Bretagna profonda approvi le politiche law and order del Premier Boris Johnson e si sia stancata dei quartieri ghetto dove vige la sharia, dove la polizia non può entrare e dove le donne, specie se bianche, devono camminare velate per non essere aggredite e violentate. Ora sarà interessante osservare la reazione dei laburisti di fronte alla batosta: continueranno a perseguire politiche ciecamente pro-immigrazione e sostanzialmente anti-britanniche, col rischio di alienarsi ancor di più le classi medie e basse, o si sposteranno al centro, col rischio di perdere l’appoggio dei radical chic bianchi e degli elettori naturalizzati delle minoranze di colore? Staremo a vedere…

Passiamo ora alle elezioni comunali di Londra. Qui il Sindaco uscente laburista Sadiq Khan, figlio immigrati pakistani, ha ottenuto la riconferma ai danni del conservatore Shaun Bailey, a sua volta figlio di immigrati giamaicani. Sebbene la vittoria di Khan sia stato il goal della bandiera, in una tornata elettorale complessivamente disastrosa per i laburisti, si tratta di un goal pesante, in quanto Londra ha un massiccio peso politico-economico. Perché Khan ha spuntato un secco 55,2% rispetto al 44,8 dell’avversario nella città in cui fu Sindaco lo stesso Boris Johnson? Prima di tutto presentandosi con la faccia moderata dell’ala centrista Labour, cosa che gli ha permesso di non spaventare la grande finanza della City. Per compensare questo aspetto istituzionale Khan ha intrapreso una battaglia ecologista che da un lato ha aumentato le tasse cittadine, ma dall’altro ha scaldato i cuori delle classi elevate bianche, sempre pronte alle crociate per la salvezza dell’Amazzonia a condizione che siano combattute dal salotto del proprio appartamento di lusso. Come ciliegina sulla torta Khan, che ha dimostrato d’essere un fine stratega, non s’è risparmiato in battaglie propagandistiche a favore delle comunità di colore, specie se islamiche. In tali battaglie il Sindaco ha oculatamente calibrato una retorica liberal, piena di parole quali tolleranza ed integrazione, con gesti d’impatto, come accusare il Governo conservatore dei tagli alla polizia (durante il primo mandato di Khan gli omicidi e le aggressioni all’arma bianca sono raddoppiati in tutta Londra) e far coprire la statua di Winston Churchill durante le proteste “antirazziste”, fatte per scimmiottare il Black Lives Matter statunitense (movimento che lo stesso Khan ha sostenuto sui social). L’insieme di queste iniziative politiche ha permesso al Sindaco pakistano di tenersi stretti sia gli elettori della sinistra al caviale sia quelli delle masse immigrate di colore naturalizzate. Da notare che la riconferma di Khan è stata festeggiata da una preghiera di ringraziamento cantata da tutti i muezzin della capitale. Tutto questo, come già il risultato del referendum sulla Brexit in cui a Londra vinse il NO, dimostra una cosa: la capitale britannica, insieme a Birmingham, ormai è la meno inglese delle città inglesi, in quanto la somma di globalismo radical chic e sostituzione etnica arrivata a buon punto hanno pesantemente annacquato l’identità anglosassone dell’ex capitale del più grande impero mai esistito.

Tuttavia, come già detto, la vittoria della Sinistra londinese è, per quanto importante, l’eccezione che conferma la regola. Simbolo della cattiva salute laburista è stata l’elezione suppletiva per il seggio parlamentare del collegio di Hartlepool, nel Nord inglese quasi al confine con la Scozia. Il suddetto collegio venne disegnato nel 1974 e da allora ha espresso ininterrottamente deputati laburisti, divenendo una sorta di simbolo della tradizione operaia e sindacale che tanto ha caratterizzato il passato dell’Inghilterra settentrionale e la sua successiva decadenza. Stavolta invece Hartlepool manderà a Westminster un parlamentare conservatore, che con il 51,9% ha bruciato il 28,7 dell’avversario di sinistra ed il 9,7 di una candidata indipendente. Cosa sta succedendo nel settentrione ex minerario inglese che tanto filo da torcere diede, malgrado la sconfitta finale, alla Iron Lady Thatcher? Né più né meno di quello che sta accadendo in Italia negli ex feudi rossi, dove invece che parlare di lavoro e diritti dei lavoratori la Sinistra parla di diritti degli immigrati, doveri degli italiani, quote rosa, istruzione gender e tutele LGBT. Col risultato che gli elettori, che nel caso inglese già si trovano in una delle zone più povere dell’Isola, si rivolgono alla Destra conservatrice, nella speranza di salvaguardare i valori socio-culturali della loro civiltà e di crescere i propri figli in un posto dove le ragazze non corrano il rischio d’essere sfregiate, magari perché viste con la minigonna da qualche “risorsa che ci pagherà le pensioni”.

Passiamo ora al vero trionfo dei conservatori e del loro carismatico leader Johnson, le elezioni locali. Come abbiamo visto sotto questa sigla i britannici inseriscono diversi enti istituzionali dalle variegate competenze, ma composti tutti da organi consigliari. Pertanto, al fine di valutare il risultato complessivo, i britannici stessi usano il semplice metodo di contare i consiglieri eletti. E i numeri, freddi ed impietosi, mostrano un’incredibile svolta a destra del Paese profondo. I conservatori hanno infatti eletto 2.345 consiglieri (più 235 dall’ultima tornata), contro i 1.345 (meno 326) dei laburisti. A questi devono essere aggiunti i 587 (più 7) liberaldemocratici ed i 151 (più 88) verdi, questi ultimi rappresentanti di un partito che su molti temi si colloca a sinistra dei laburisti stessi. Sebbene la semplice lettura dei risultati mostri una grande vittoria conservatrice, in realtà per la Sinistra la situazione è ancor più difficile di quanto sembri. Due le ragioni. La prima è interna al proprio elettorato, la cui parte centrista non è tornata del tutto a casa dopo la nefasta segreteria dell’estremista Corbyn (attualmente sospeso dal partito per dichiarazioni antisemite contro Israele), mentre l’ala sinistra in gran parte ha preferito i Verdi, che hanno più che raddoppiato la loro precedentemente trascurabile rappresentanza eletta. La seconda ragione del disastro laburista è che se loro si sono mostrati doppiamente zoppi i conservatori, all’opposto, appaiono in ottima salute. In primo luogo i Tories hanno riportato a casa la quasi totalità degli elettori che gli furono sottratti dai brexiteer di Nigel Farage, i quali, avendo raggiunto il grande obbiettivo, ormai hanno poco senso politico. In secondo luogo, last but not least, il risultato ha consacrato Boris Johnson quale leader carismatico della Destra istituzionale britannica. Ad oggi Johnson non solo è lo stimato ex Sindaco della Londra olimpionica, ma anche il capofila dei conservatori pro-Brexit, cosa che dopo la vittoria referendaria gli ha facilitato non poco il riassorbimento dell’elettorato perduto. Tutto ciò gli ha garantito una grande vittoria alle politiche del 2019 ed il conseguente premierato. Infine, poiché la fortuna aiuta gli audaci, il Primo Ministro conservatore ha saputo gestire con doppia abilità organizzativa e mediatica la pandemia di covid-19, che in Gran Bretagna ha picchiato duro.

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In quest’ultimo successo Johnson è stato più bravo o più fortunato di Trump. Trump… Spesso la stampa italiana, nella sua superficialità mainstream, ha paragonato i due “biondi pazzi” divisi dall’Atlantico ma uniti dalla politica. Il paragone di per sé calza, ma è grossolano. Indubbiamente si tratta di due leader istrionici, che hanno risollevato i partiti conservatori dei rispettivi Paesi dopo un periodo difficile e che condividono la maggior parte dei valori politico-ideologici (in primis una certa idea di eccezionalità anglosassone). Ma tra i due vi sono anche notevoli differenze. Trump è un vero outsider, una sorta di elefante nella cristalleria della politica statunitense, mentre Johnson, sebbene anticonvenzionale, vanta un cursus honorum pienamente istituzionalizzato. The Donald è un rappresentante del sogno americano, di quelli che “si sono fatti da soli”, intelligente ma un po’ rozzo, mentre Boris proviene da una famiglia di notevole lignaggio ed ha studiato ad Eton e ad Oxford. Entrambi, infine, sono grandi estimatori di Churchill, sebbene l’ammirazione dello statunitense sia solo un inchino ad un gigante della storia del conservatorismo e della democrazia, mentre Johnson arriva ad imitarne la retorica, ha scritto un libro su di lui ed aspira (audacemente ci permettiamo di dire) ad esserne una sorta di erede spirituale.

Possiamo pertanto dire che il Primo Ministro britannico stia vincendo su tutta la linea? No, in quanto nei prossimi mesi Johnson e tutta la politica britannica dovranno vedersela con un problema di grande dimensione e difficile soluzione: la Scozia.

Come noto in questo 6 maggio degno di un election day si è votato anche per i parlamenti autonomi di Galles e Scozia. Nella prima regione (la cui autonomia è molto più ridotta di quella scozzese) il risultato è stato di quelli che accontenta un po’ tutti. Gli eletti al Senedd (nome ufficiale in gaelico dell’assemblea) infatti sono stati: 30 laburisti (più 1 rispetto alla precedente tornata), 16 conservatori (più 5), 13 indipendentisti del Plaid Cymru (più 1) e 1 liberaldemocratico (uguale a prima). I partiti principali del Galles sono curiosamente riusciti a crescere tutti a causa della scomparsa dello UKIP, il vecchio partito di Farage, che da 7 eletti è passato a 0. Questo fa sì che i laburisti possano gioire per essersi confermati primi nello storico bastione gallese, gli indipendentisti per aver ottenuto il loro massimo storico ed i conservatori per aver attuato la maggior crescita relativa di tutti i contendenti (ennesima dimostrazione del “ritorno a casa” dei voti brexiteer, in gran parte per merito di Johnson). Ora il Governo regionale sarà quasi certamente una riedizione di quello uscente, ovvero una coalizione di laburisti e Plaid Cymru, che a lato dell’indipendentismo ha sempre avuto un programma socio-economico di sinistra e la cui bestia nera sono i conservatori. Quest’ultimo fattore è caratteristico della Gran Bretagna e della Spagna dove, al contrario dell’Italia e del Belgio, gli autonomisti/indipendentisti hanno sviluppato una piattaforma programmatica progressista se non addirittura socialista.

Ad ogni buon conto ben più esplosiva è la situazione in Scozia. Qui i risultati hanno confermato la quasi perfetta divisione a metà tra coloro che sono favorevoli alla secessione e chi auspica la permanenza nel Regno Unito. In termini numerici lo Scottish National Party della focosa Nicola Sturgeon ha eletto 64 deputati (più 1), i conservatori hanno riconfermato i loro 31, i laburisti hanno ottenuto 22 seggi (meno 2), i verdi 8 (più 2) ed i liberaldemocratici, il cui elettorato negli ultimi vent’anni è stato cannibalizzato dagli indipendentisti, 4 (meno 1). Questo pone lo Scottish National Party ad un solo deputato di distanza dalla maggioranza assoluta. Inoltre i Verdi scozzesi sono anch’essi favorevoli alla secessione, mentre il partito della Sturgeon è pesantemente spostato a sinistra in economia e soprattutto immigrazione. Di conseguenza il prossimo Governo ad Edimburgo sarà quasi sicuramente composto da un’alleanza giallo-verde (niente Conte I tranquilli: il giallo è il colore del Partito Nazionale Scozzese).

Forte del risultato conseguito, la Sturgeon ha già annunciato che avvierà le procedure per la richiesta di un nuovo referendum per la secessione (ricordiamo che in quello del 2014 il NO ottenne il 55,30% contro il 44,70 del SÌ), mentre Boris Johnson, forte del suo sostanziale trionfo a livello nazionale, ha chiarito subito la sua contrarietà. Interessanti le prime dichiarazioni dei due leader sull’esplosivo argomento, con la Sturgeon che ha detto che democraticamente è impossibile impedire un’altra consultazione, al che il Primo Ministro ha risposto che un referendum per generazione è sufficientemente rappresentativo (come a dire che non si possono tirare i dadi finché non esce il numero desiderato). In ogni caso già si parla di finire davanti alla Corte Suprema. Staremo a vedere…

Concludiamo la nostra analisi con una domanda che ci riguarda da vicino. Quale sarà l’atteggiamento dell’Unione Europea nella diatriba Londra versus Edimburgo? Appoggerà i secessionisti scozzesi (dichiaratamente europeisti e pro-immigrazione selvaggia) per fare il peggior dispetto possibile alla Gran Bretagna? Non è un mistero che i burocrati europei semplicemente odiano la perfida Albione, rea di aver osato ribellarsi al Moloch giacobino di Bruxelles in nome dell’identità nazionale e colpevole di aver dimostrato che l’Unione Europea non è ineluttabile e che anzi può essere sconfitta. Oppure i suddetti burocrati si schiereranno con Londra, obtorto collo e per pura realpolitik, onde scongiurare un precedente che aprirebbe il vaso di Pandora degli autonomismi/indipendentismi di tutto il continente?

Su questo argomento i precedenti atteggiamenti dell’UE sono stati di un’ipocrisia riprovevole, ben oltre i limiti della meschinità. Vediamo il perché. Ben prima del referendum scozzese del 2014 la Catalogna era già in ebollizione indipendentista, con i leader secessionisti che in massima parte assicurarono che, dopo il distacco dalla Spagna, la Catalogna sarebbe rimasta nell’UE e per di più con politiche progressiste, con particolare enfasi (anche qui…) sulla libera immigrazione dal Terzo Mondo. Niente da fare, da Bruxelles arrivarono messaggi inequivocabili: secedere da uno Stato membro significava l’esclusione automatica dall’Unione, con tanto di boicottaggio economico. Nel 2014, di fronte al referendum scozzese, l’atteggiamento fu simile, sebbene con toni più tranquilli (in Inghilterra stava montando la marea pro-Brexit). Fin qui una linea condivisibile o meno, ma se non altro lineare. E poi…la magia. Con la vittoria in Gran Bretagna del SÌ alla Brexit, malgrado in Scozia abbia prevalso il NO, gli scozzesi sono improvvisamente divenuti degli eroi romantici, novelli William Wallace da sostenere contro la reazionaria Inghilterra. Al punto che a Bruxelles si arrivò a dire che, in caso di secessione dalla “secessionista” Gran Bretagna, la Scozia sarebbe stata automaticamente riammessa nell’UE. Un ben misero livello politico per un’organizzazione sovranazionale che si vanta di insegnare la democrazia a tutto il mondo.

Quindi torniamo alla domanda: i burocrati di Bruxelles sosterranno gli indipendentisti scozzesi? Chi scrive crede di sì, in quanto l’odio da amante scaricata verso la perfida Albione li acceca più di quanto la saggezza della realpolitik li illumini. Questo forse aiuterà lo Scottish National Party a fare “il gran danno” al Regno Unito, ma come detto una secessione scozzese creerebbe un precedente incontrollabile per tutti i secessionismi del Vecchio Continente, quali quello catalano, basco, fiammingo o serbo-bosniaco. E forse anche dell’Italia Settentrionale.

Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).