di Daniele Scalea

Premessa: piacerebbe all’autore non dover scrivere un articolo del genere, di mera cronaca, poiché normalmente toccherebbe ai giornali provvedervi. Purtroppo, salvo poche eccezioni virtuose, i media italiani stanno ignorando i fatti qui riferiti. I nostri TG, tanto solerti nel riferire del più insignificante pettegolezzo che metta in cattiva luce Donald Trump, stanno bellamente ignorando l’emergente Bidengate, tutt’al più liquidandolo come un generico e non meglio precisato “attacco di Trump alla famiglia di Biden” (TG5 di ieri).

Corollario alla premessa: qualche lettore potrebbe essere del tutto all’oscuro di ciò di cui andremo a scrivere. Raccomando a costoro la lettura del libro Trump contro tutti per un ampio inquadramento delle accuse di corruzione rivolte alla famiglia Biden, e per mettersi in pari coi penultimi avvenimenti quella di questo articolo: link. In esso si riferisce del ritrovamento di un computer di Hunter Biden (figlio di Joe) il cui contenuto è finito nelle mani del “New York Post”. Nel medesimo articolo si può leggere di come Twitter e Facebook stiano cercando di celare la notizia al pubblico americano (si consideri che ancora oggi Twitter tiene bloccato l’account del più antico giornale degli Stati Uniti d’America reo d’aver fatto uno scoop scomodo, mentre dà voce ad estremisti e dittatori in giro per il mondo).

Quali sono le novità occorse nell’ultima settimana?

Innanzi tutto, è evaporata la linea difensiva inizialmente tenuta dai democratici, ossia quella di liquidare il tutto come una montatura frutto del solito complotto di Putin. Non solo è saltata fuori la ricevuta del negozio di riparazioni controfirmata da Hunter Biden, ma è stato confermato che l’FBI è dall’anno scorso in possesso del portatile abbandonato presso il negoziante e lo ha anche utilizzato nell’ambito di un’inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco. Il Direttore dell’Intelligence Nazionale, John Ratcliffe, ha smentito che ci sia alcun indizio che la vicenda possa avere connessione con manovre da parte di Mosca.

In secondo luogo, la cosa si sta facendo sempre più compromettente per Joe Biden. Una settimana fa, le prime anticipazioni rivelavano che Hunter Biden aveva organizzato un incontro col padre, allora Vice-Presidente, per un collega di Burisma, l’azienda ucraina presso la quale ha ottenuto un incarico lucrosissimo e controverso. Il che ha fatto venir meno la già fragile linea difensiva del candidato democratico alla presidenza, ossia che padre e figlio non si sarebbero mai parlati dell’attività lavorativa di quest’ultimo. Anzi: il Vadym Pozharskyi che avrebbe incontrato Joe Biden nel 2015 ero lo stesso che nel 2014 chiedeva a Hunter un aiuto per porre fine alle indagini su Burisma. Come sappiamo, nel 2016 il super-procuratore anti-corruzione dell’Ucraina, Viktor Shokin, fu licenziato su pressione di Joe Biden.

Nel frattempo, sia “Fox News” sia il “New York Post” continuano a scandagliare le e-mail di Hunter Biden, cui si è aggiunto un secondo serbatoio di lettere elettroniche: si tratta di quelle che Bevan Cooney, ex socio d’affari di Hunter Biden oggi in prigione, ha consegnato al giornalista investigativo Peter Schweizer.

Ciò che emerge dalla lettura di queste e-mail è che Hunter Biden traeva ingenti profitti creando un collegamento tra uomini d’affari esteri e la Casa Bianca, sfruttando ovviamente la propria relazione genitore-figlio coll’allora Vice-Presidente.

Particolarmente compromettente appare un affare, condotto nel maggio 2017, col conglomerato cinese CEFC, successivamente travolto da scandali di corruzione e riciclaggio e oggi in bancarotta. Ci sono sei persone coinvolte e, in una mail del 13 maggio 2017, è anche ipotizzata una spartizione delle azioni di una nuova compagnia: il 20% deve essere assegnato a “H”, verosimilmente Hunter Biden, e “10 tenuto da H per il grosso tizio”. Il “big guy” menzionato sarebbe niente meno che Joe Biden, come hanno anche confermato fonti anonime (a “Fox News”) e uno dei destinatari della missiva, Tony Bobulinski. I rapporti tra Hunter Biden e la CEFC proseguirono oltre: nell’agosto 2017 il rampollo si accordava con Ye Jianming, presidente della compagnia cinese (oggi latitante), per un compenso da 10 milioni di dollari l’anno “for introductions only”, ossia solo per presentare determinate persone.

In attesa che giungano le nuove, annunciate rivelazioni provenienti dalla posta elettronica di Hunter Biden, una domanda che molti si pongono è se questo “Bidengate” potrà pregiudicare l’elezione alla presidenza di Joe, che quasi tutti i sondaggisti vendono oggi come certa. I democratici palesano tranquillità, affermando che “agli americani non interessa sentir parlare di Hunter Biden”, e anche alcuni strateghi repubblicani mettono in guardia dal fossilizzarsi troppo su questa storia. Sicuramente è vero che gli elettori siano più preoccupati oggi dalla situazione sanitaria o dall’economia, ma non bisogna trascurare il peso d’uno scandalo che mette in dubbio l’onestà non solo di Hunter ma anche di Joe Biden, il quale potrebbe aver messo “in vendita” il proprio ufficio affinché ne lucrasse il figlio (e, forse, egli stesso). Infatti, allo stato attuale, l’apparente successo della campagna elettorale democratica non poggia su un programma politico ma sul “carattere” dell’ex Vice-Presidente.

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Joe Biden finora si è guardato bene dallo sbilanciarsi su quali azioni concrete intraprenderà se eletto presidente. Quelle poche volte che lo ha fatto si è creato dei problemi. Così è successo per il suo piano d’alzare le tasse, molto contestato dagli analisti finanziari (in una fase di depressione economica è saggio drenare soldi dalla società?) e che ha portato pure il popolare rapper 50Cent a schierarsi a favore di Donald Trump (può sembrare solo una nota di colore, ma il fatto che tre celebri cantanti afro-americani – gli altri due sono Kanye West e IceCube – abbiano segnalato di favorire l’attuale Presidente rispetto al rivale democratico può avere un peso sulle scelte dei giovani neri, una constituency che Biden dà per scontata ma entro la quale – ammonisce il commentatore radiofonico Charlamagne Tha God – Trump sta facendo breccia).

Il successo di Joe Biden non è dunque legato a ciò che promette di fare, ma di essere: un rassicurante nonnino che si contrappone allo “zio matto” (così politici democratici e giornalisti embedded chiamano ora il Presidente), il “Middle Class Joe” che ha avuto tanti lutti in famiglia e quindi può meglio solidarizzare con chi ha perso propri cari a causa della Covid-19. Il carattere personale è l’arma vincente di Biden, che non è disprezzato dai più come lo era Hillary Clinton nel 2016. Trump ha provato ad intaccarne il personaggio puntando sulla demenza senile, ma senza successo anche grazie alle ultime uscite pubbliche, più o meno brillanti, di Biden. Lo scandalo che sta uscendo dalle e-mail può sparigliare le carte, perché mostra un altro Joe Biden: il politico di professione che nel mezzo secolo passato nei palazzi ha fatto soldi a palate, con un figlio che conduce una vita d’eccessi e tossicodipendenze ma guadagna facilmente milioni di dollari vendendo entrature col padre.

Ora toccherà agli americani decidere quale Biden credono sia quello reale: l’austero ed empatico Middle Class Joe o il cinico affarista Crooked Joe. Il primo potrebbe ben finire alla Casa Bianca; il secondo rischia d’essere giubilato nel segreto dell’urna come accadde a Crooked Hillary quattro anni fa.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.