di Silvio Pittori

Difficile anche soltanto immaginare il profondo dolore dei genitori della piccola Indi, della quale i giudici inglesi hanno decretato la morte mediante l’arresto delle macchine che le consentono di restare in vita. Mi chiedo che cosa di umano sia presente in questa scelta, e come sia soltanto immaginabile che la decisione di arrestare il battito di un cuore di una bambina sia sottratta a chi ne ha legittimamente la potestà, esercitandola oltretutto con fermezza e compassione in un grido infinito di dolore, venendo delegata ad un soggetto terzo, che ha soltanto il merito di essere un tecnico delle leggi.

Tutto ciò, nonostante un ospedale di uno Stato diverso, di cui peraltro la piccola ha, seppur da pochi giorni, la cittadinanza, riconosciutale da un Governo sensibile alla vita, sia pronto ad accoglierla per offrirle ogni tipo di cura, sottraendola al bieco materialismo di un bilancio ospedaliero che prevale, nell’ottica di un capitalismo cieco, sulla vita di una persona. In una società in cui oramai qualsiasi pretesa si trasforma in un diritto, approntandosi per l’esercizio dello stesso ogni tutela, nazionale ed internazionale, si priva del diritto principale, quello alla vita, una bambina, negando ai legittimi suoi rappresentanti, i genitori, il diritto di esercitarlo legittimamente e doverosamente nel suo interesse.

Si annulla infatti l’idea stessa di speranza, di speranza di vita, si disconosce la speranza in quel miracolo salvifico che talvolta si rivela nelle vicende umane, inspiegabile anche agli occhi dei medici. Tutto si tecnicizza, al di là della compassione e della carità, medici e giudici stabiliscono ciò che è corretto e ciò che è sbagliato, stabilendo, in ultima analisi, ciò che è bene per la piccola Indi.  L’individuo si trova immerso in quella solitudine che soltanto la vita di relazione propria delle persone garantisce, quale origine di ogni Comunità. Ed allora si dimentica il diritto alla vita, il diritto a combattere per la vita, che traspare dagli occhi della piccola Indi, per chi abbia voglia di perdersi per un attimo in quello sguardo. Siamo oramai alla negazione di quelle norme non scritte ma universali che fanno parte del patrimonio etico, razionale e religioso di ogni persona e di ogni Comunità, quelle su cui si basa la stessa convivenza civile: siamo al cospetto della negazione del diritto naturale, di ciò che “semper aequum et bonum est”. Una deriva oramai inarrestabile che viola la “recta ratio” di cui parlava Cicerone. Una separazione netta tra Logos e Fede, tra quel Logos e quella fede di cui il Papa Emerito, al cospetto di un’epoca contrassegnata dalla perdita costante, apparentemente inarrestabile, dei valori, aveva con forza caldeggiato una riconciliazione nell’anno 2006, a Ratisbona.

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A chi si nasconde dietro le leggi per giustificare ciò che ogni individuo, con un minimo di conoscenza del Diritto e un minimo di retta coscienza, giudica un abominio, va ricordato come le leggi siano scritte dagli uomini e come le stesse dovrebbero essere caratterizzate dal quel senso di pietà richiamato dal giurista Piero Calamandrei nel libro “Elogio dei Giudici scritto da un Avvocato” (Ponte alle Grazie), senso di pietà che dovrebbe accompagnare la ragione. Ma ciò conduce nuovamente a quel binomio Fede e Logos, caro al Papa Emerito, quale argine a quel tramonto dell’Occidente di cui la piccola Indi sta diventando, suo malgrado, una triste icona.

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Avvocato cassazionista con sede a Firenze, esperto in diritto civile societario e in diritto penale di impresa e contrattualistica. Laureato in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Firenze.