Dal punto di vista bioetico, il dibattito sull’eutanasia e sul suicidio assistito si svolge soprattutto alla luce dei paradigmi della sacralità e della qualità della vita. Secondo il paradigma della sacralità della vita umana, ogni intervento che ponga intenzionalmente fíne alla vita umana è da ritenersi moralmente illecito, mentre uno spazio più o meno ampio alla richiesta eutanasica del paziente viene concesso se la questione viene affrontata dal punto di vista della qualità della vita.

La discussione ruota essenzialmente intorno all’idea secondo cui l’essere umano può (o non può) disporre della propria vita, nei modi e nei tempi che egli ritiene adatti a conferire significato alla propria esistenza. Sulla base della distinzione tra la sacralità e la qualità della vita, avremo quindi due posizioni di segno diametralmente opposto, a seconda che si accetti il primo o il secondo valore come primario e dominante.

Coloro che ritengono che la vita umana sia sacra, rifiutano qualsiasi pratica eutanasica: se la vita umana è dono di Dio allora neppure il malato che soffre senza speranza ha il diritto di disporre della sua vita; mentre coloro che sostengono che la persona abbia il diritto di concludere la propria vita, quando non ci sia più alcuna possibilità di guarigione, ritengono moralmente lecita l’eutanasia. Per questo orientamento scegliere il modo ed il momento della propria morte rappresenta un diritto dell’individuo, un’espressione della sua autonomia personale.

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Che si scelga di seguire il primo orientamento oppure il secondo, rimangono tuttavia irrisolti alcuni problemi. Coloro che insistono sulla qualità della vita del paziente, e chiedono di autorizzare per legge l’intervento del medico volto a porre fine a quella vita, dimenticano che se il medico praticasse un intervento eutanasico attivo entrerebbe in conflitto con la sua etica professionale, che dal giuramento di Ippocrate in poi prevede il divieto di somministrare al paziente farmaci letali, anche su sua esplicita richiesta.

Coloro che invece insistono sulla sacralità della vita dimenticano che nelle ultime fasi della malattia terminale il paziente può chiedere di morire perché ritiene in tal modo di salvaguardare la sua dignità impedendo che la morte sia semplicemente differita nel tempo, attraverso l’uso di tutti i mezzi di cui oggi la medicina dispone.

È difficile uscire da questa impasse, ma non è seguendo la rigida contrapposizione tra sacralità e qualità della vita che saremo in grado di farlo. C’è un principio più alto, oltre la sacralità e la qualità della vita, ed è il “principio dignità” che ci impone, rovesciando il discorso kantiano sul suicidio, di rispettare l’umanità nella persona condizionata dalla fragilità del suo stato. Senza tuttavia accettare l’idea che il medico possa diventare il killer del suo paziente.


Paolo Becchi, docente universitario, è saggista ed editorialista di «Libero»