di Lorenzo Bernasconi

La morte di Joseph Ratzinger, alias Papa Benedetto XVI, segna la fine di un’epoca per la Chiesa Cattolica. Oltre che una guida religiosa, Ratzinger è stato una figura influente sul piano culturale e politico, e proprio in un’ottica politica vorrei provare a tracciare un breve ritratto del pontefice scomparso, focalizzandomi, più che sulla biografia in senso stretto, sul suo modo di leggere la modernità e di interpretare il ruolo di vertice della Chiesa, intesa come centro di potere spirituale, ma anche culturale e mediatico.

L’eredità di Giovanni Paolo II

Bavarese, classe 1927, Ratzinger fu teologo, professore universitario e arcivescovo di Monaco, finché, nel 1981, Giovanni Paolo II lo nominò Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Quel quarto di secolo trascorso in Vaticano al vertice della potente congregazione gli sarebbe stato poi utile quando, nel 2005, fu eletto dal conclave come successore di Wojtyła, salendo al soglio pontificio.

Prendere il posto che fu di Giovanni Paolo II avrebbe rappresentato una sfida per chiunque: nei ventisette anni del papato di Wojtyła, durante i quali il mondo intero era stato scosso da terremoti sociali, economici e politici (dal disastro di Chernobyl, al crollo dell’URSS, fino all’attentato alle Torri Gemelle e alla crisi dei bond argentini) l’immagine pubblica della Chiesa si era saldata in modo indissolubile al viso e all’eloquio del pontefice polacco.

L’avvento di internet e delle nuove tecnologie dell’informazione, inoltre, aveva rivoluzionato sul piano comunicativo l’istituzione stessa del papato, trasformando il successore di Pietro in un vero e proprio frontman della Chiesa, in grado – e in dovere – di comunicare costantemente e in prima persona con centinaia di milioni di fedeli, nonché col circuito dei media e coi leader politici e religiosi di tutto il mondo. Riflessivo e introverso, Benedetto XVI non possedeva il talento comunicativo del predecessore, ma in cinque lustri trascorsi all’ombra del cupolone aveva sviluppato una chiara visione d’insieme della Chiesa e compreso a fondo i cambiamenti intervenuti nello scenario globale a partire dagli anni ’70.

La crisi della Chiesa, la crisi dell’Occidente

Ratzinger era consapevole di come quella “posizione di vantaggio”, di cui aveva goduto per oltre un millennio l’istituzione ecclesiastica, fosse entrata in crisi. Se ancora nella prima metà del ‘900 l’appartenenza alla Chiesa Cattolica era profondamente radicata nella cultura nazionale di buona parte degli Stati europei, e se praticamente in tutto il mondo occidentale la Chiesa-Istituzione era ancora percepita dalla politica come un interlocutore imprescindibile, nella seconda metà del secolo le cose erano decisamene cambiate.

Non solo la Chiesa aveva perso influenza e credibilità in un Occidente sempre più secolarizzato, ma l’Occidente stesso aveva iniziato a perdere terreno in molti ambiti – da quello tecnologico a quello demografico – nei confronti delle nuove potenze emergenti, prive, in larga maggioranza, di un retroterra culturale cristiano e impermeabili alla “buona novella”.

Papa Benedetto, compreso che il cattolicesimo moderno non poteva più contare neppure in Europa – complice l’afflusso di milioni di immigrati non cristiani – sull’egemonia culturale di un tempo, scelse di incentrare la propria predicazione/comunicazione (i due aspetti sovente si sovrappongono) su aspetti teologici e dottrinari lasciati abitualmente sullo sfondo dai suoi predecessori, ritornando di frequente sui fondamenti della fede cattolica, con uno stile argomentativo molto denso e non sempre di immediata comprensione.

Vista in prospettiva, tuttavia, quella di Ratzinger appare una scelta ragionevole: se in una contesto quasi monoconfessionale era infatti sensato lavorare più che altro sull’engagement dei fedeli, dando per scontati i “fondamentali” della fede e affidandone la trasmissione a un’educazione religiosa diffusa, in un mondo in cui i cattolici si trovano a vivere fianco a fianco con chi professa altre fedi diviene imprescindibile fornire ai credenti gli strumenti necessari per elaborare a livello razionale e in modo organico le basi del proprio credo. Dar loro, cioè, un quadro complessivo e coerente dei suoi contenuti fondamentali, così da favorire un’adesione matura e consapevole che consenta di dare ragione (altro tema tipicamente ratzingeriano) della propria appartenenza religiosa.

Il Papa conservatore

Tale approccio guadagnò al papa tedesco l’etichetta di teologo conservatore, sebbene – ironia della sorte – durante gli anni universitari Ratzinger fosse stato accusato più volte di eccessi in senso progressista.

Di una visione conservatrice avrebbe più senso parlare in riferimento al Ratzinger politico, sebbene il conservatorismo ratzingeriano non vada interpretato, a mio avviso, come una posizione dogmatica o come il riflesso di una sua inclinazione politica individuale, bensì come la naturale conseguenza del suo peculiare approccio intellettuale, caratterizzato da una combinazione di pragmatismo e razionalismo, su cui vorrei spendere qualche parola.

Se nel famoso discorso di Ratisbona del 2006, che tanto irritò il mondo islamico, qualcuno lesse un arroccamento nel dogma e una chiusura verso i non cattolici, a ben guardare il nucleo filosofico di quel passaggio dell’intervento di Benedetto XVI si può semmai ridurre ad un richiamo al tribunale della ragione.

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In altri termini, Ratzinger fece velatamente notare che non si può prescindere, nell’attribuzione di valore a un fenomeno culturale o religioso, dall’esame delle conseguenze materiali e tangibili dello stesso: ove l’introduzione di una data cultura o di una data fede causi un sostanziale aumento della violenza e un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita, non ci si può esimere dal mettere in discussione la compatibilità del nuovo sistema di valori con le esigenze fondamentali dell’essere umano.

In questo senso, credo che pure la costante denuncia dei rischi connessi al relativismo – forse il tema più spesso toccato da Ratzinger nei suoi otto anni di pontificato – non vada interpretata come rifiuto aprioristico della modernità, ma piuttosto quale grido di allarme di un intellettuale che ha compreso come una società, se si ritrova priva di un nucleo di valori condivisi intorno al quale costruire una qualche forma di identità collettiva, sia destinata a sfaldarsi, finendo per soffocare nel caos e nella guerra civile (di cui le periferie urbane d’Europa ci stanno già offrendo qualche assaggio) o nella dittatura. Similmente, l’importanza attribuita da Ratzinger al diritto a non emigrare, e quindi alla necessità di favorire lo sviluppo dei paesi più poveri, è anch’essa figlia di questo razional-pragmatismo.

Il Papa razionalista

In sostanza, nella sua prospettiva, l’amore per il prossimo non può prescindere da un’analisi razionale delle azioni possibili e delle loro conseguenze, e lo slancio emotivo dettato dall’imperativo religioso va contemperato con un’attenta riflessione onde evitare di causare mali maggiori (ad esempio, il dovere dell’accoglienza va bilanciato con il riconoscimento di limiti oggettivi oltre i quali è impossibile garantire la tenuta della società ricevente, ma anche con la necessità di evitare che migrazioni di massa portino alla disgregazione della società nei Paesi di origine dei flussi).

E, ancora, sempre da questo approccio intellettuale derivano i frequenti incontri coi rappresentanti di altre confessioni religiose, anche non cristiane, e con esponenti della galassia agnostico-atea, nella convinzione che la razionalità comune a tutti gli esseri umani costituisca una solida base sulla quale è possibile dialogare con chiunque, a prescindere dalle divergenze in materia religiosa. Allo stesso tempo, Ratzinger non mancò mai di rimarcare la differenza tra la religiosità cristiana e altri tipi di spiritualità, rivelando una concezione di matrice tipicamente greca del dialogo quale incontro tra diversi che restano consci della propria diversità, in un orizzonte culturale lontano anni luce da qualsiasi tentazione sincretistica di stampo hegeliano.

Il Papa emerito

Nel febbraio 2013, com’è noto, Benedetto XVI rinunciò all’incarico di pontefice alla luce dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute. Il conclave elesse il cardinal Jorge Mario Bergoglio, che assunse il nome di Francesco, e Ratzinger, ormai papa emerito, si ritirò in un convento entro le mura vaticane.

Papa Francesco, così diverso per carattere e per formazione dal suo predecessore, scelse di indirizzare la barca di Pietro su una rotta differente, ma di questo tratterò nel dettaglio in altra sede; quel che è certo è che l’inedita convivenza di due papi entro le mura vaticane non è stata senza conseguenze, anche da un punto di vista mediatico.

La silenziosa ma ingombrante presenza di Benedetto XVI ha in qualche modo rappresentato un limite oggettivo alla libertà di manovra del nuovo pontefice, la cui legittimità stessa è stata messa in dubbio da alcuni esponenti del cattolicesimo più radicale. Con la scomparsa di Ratzinger, Francesco, eletto papa quasi un decennio or sono, è oggi l’unico, solo e indiscusso pontefice della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.

Se Bergoglio, come guida del popolo cristiano, farà meglio o peggio del suo predecessore, è questione che riguarda esclusivamente i cattolici. Tuttavia, la galassia dei conservatori – compresi coloro che, come chi scrive, muovono da una prospettiva non religiosa, ma condividono l’attitudine all’analisi razionale e alla visione di lungo periodo di Benedetto XVI – oggi ha perso un interlocutore attento, brillante e intellettualmente onesto. E non è affatto scontato che Francesco, il quale – legittimamente – sembra avere altre priorità, intenda raccogliere il testimone di Benedetto e riservare al mondo conservatore la stessa attenzione dedicatagli del suo predecessore.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.