C’era da scommetterci: gli sconvolgimenti generati dal coronavirus avrebbero offerto il destro ai sostenitori dell’eutanasia per un ennesimo inquietante “salto di qualità”. Così è stato.

A suonare la tromba d’apertura di questa lugubre fanfara è, come al solito, l’Olanda. Nel paese dove ai 70enni viene suggerito di morire anche se sani, è stato approvato un nuovo protocollo, per cui sono i medici di famiglia stessi a telefonare ai loro pazienti più anziani, mettendoli sostanzialmente di fronte a un aut-aut: nel caso in cui tu ti ammalassi di coronavirus, puoi optare per una “lunga ventilazione” oppure per l’abbandono terapeutico. Quest’ultima soluzione è quella di gran lunga più consigliata a quei pazienti che i medici ritengano abbiano vissuto ormai abbastanza a lungo. Gli olandesi anziani vengono così persuasi a firmare delle disposizioni anticipate di trattamento straordinarie, con la sottolineatura che i respiratori artificiali potrebbero essere comunque in quantità insufficiente. È significativo che tutto ciò avvenga nel paese dove non solo l’eutanasia è legale da più tempo e più massicciamente praticata, ma dove, almeno inizialmente, le regole per la quarantena sono state più blande, sull’onda della controversa politica della “immunità di gregge”.

Gli USA non sono da meno: in Tennessee sono state escluse dalle cure le persone affette da atrofia muscolare spinale. Ancora più spietate le regole in Minnesota dove vengono sacrificati i pazienti con patologie polmonari pregresse, scompensi cardiaci e cirrosi epatica. In altri Stati (New York, Michigan, Washington, Alabama, Utah, Colorado, Oregon) è a discrezione del medico se curare o meno i pazienti con determinate disabilità fisiche o intellettive. Tra questi ultimi potrebbero farne le spese le persone con sindrome di Down.

Il primato dell’orrore spetta comunque al Canada, da sempre all’avanguardia nel campo della “buona morte”. L’organizzazione pro-eutanasia Compassion and Choice ha persino organizzato una raccolta fondi per promuovere la teledeath, ovvero il suicidio assistito “in remoto”. Chi desideri morire, riceverà in videochiamata tutte le istruzioni necessarie per “morire a breve e a lungo termine”, quali farmaci letali assumere, in quali modalità, ecc. Il tutto senza la necessità della prossimità fisica di un medico che rediga il protocollo di morte. Di fatto, un colossale passo da gigante verso l’eutanasia-fai-da-te.

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E l’Italia? Da noi, dove l’eutanasia è illegale solo formalmente, stanno facendo molto discutere le raccomandazioni della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI), che individua delle linee guida in uno scenario di “enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive”. Tenuto conto che “circa un decimo dei pazienti infetti richiede un trattamento intensivo con ventilazione assistita, invasiva o non invasiva”, la SIAARTI avverte che potrà “rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva”, per quindi “riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”. Detto in termini concreti: se sei anziano (e il protocollo non specifica alcun limite di età!) e affetto da particolari fragilità o da “comorbilità severa” hai meno diritto alla terapia intensiva, al punto che il personale sanitario può anche bloccare il tuo accesso persino ai posti liberi, nell’eventualità che giungano pazienti più giovani e meno gravi. La Rupe Tarpea rivive tristemente negli odierni gironi infernali della sanità italiana. E indossa la grottesca maschera della pedanteria burocratica e di un’efficienza solamente nominale.


Luca Marcolivio è giornalista professionista free lance