Il 16 marzo una squadra di ricercatori dell’Imperial College di Londra ha pubblicato uno studio sul Covid-19 dal forte impatto nel rimodulare le politiche di risposta non solo della Gran Bretagna, ma anche di Francia e USA. Pur poco citato dalla stampa italiana, esso contiene valutazioni rivelatrici anche per la nostra nazione.

Lo studio del team guidato dall’epidemiologo Neil Ferguson confronta le due possibili strategie di risposta al virus: la mitigazione, che si concentra sulla cura dei malati e su un rallentamento della diffusione, e la soppressione, che cerca di mantenere al livello più basso possibile la propagazione della malattia. Una strategia di soppressione è quella in corso in Italia, mentre una di mitigazione era stata ventilata da Boris Johnson in Gran Bretagna ma apparentemente già abbandonata o quanto meno annacquata.

Una mitigazione ben fatta (ossia che preveda la quarantena dei casi sospetti o di chi è entrato a contatto con contagiati, oltre a misure di distanziamento sociale per gli anziani e le altre categorie a rischio) si prevede efficace, nel senso di poter dimezzare il numero delle vittime e ridurre di 2/3 il picco di ospedalizzazioni. Inoltre con una simile strategia, essendoci molti contagiati tra la popolazione, si può raggiungere prima l’immunità di gregge – sulla cui efficacia permangono però alcuni dubbi: non è chiaro che quantità di popolazione dovrebbe essere immunizzata (tra il 50% e l’80%), né se tale immunizzazione sarebbe persistente o meno (l’influenza comune, si sa, ritorna di anno in anno). La pecca più grande di questa strategia, si spiega nello studio, sta nel fatto che il sistema sanitario sarebbe comunque incapace di tener fronte all’impegno di terapie intensive richiesto – e ciò aumenterebbe la mortalità generale.

Per tale ragione i ricercatori del Imperial College indicano come preferibile una strategia di soppressione, ossia almeno l’applicazione generalizzata di misure di distanziamento sociale e la chiusura di scuole e università. La Cina in Hubei ha applicato misure drastiche e pure l’Italia, dopo un breve tentativo di mantenerle più lasse, marcia a tappe forzate verso quella direzione. La cattiva notizia è che pure la soppressione ha i suoi rovesci della medaglia. Contenendo la diffusione del contagio si abbassa la curva epidemica, permettendo dunque di non sovraccaricare le capacità ospedaliere, ma si preclude il raggiungimento di un’immunità di gregge, sicché l’epidemia è destinata a prolungarsi nel tempo – per la precisione fino alla disponibilità massiccia di un vaccino, che non è prevedibile prima di un anno / un anno e mezzo da oggi. Fino ad allora, ogni sospensione delle misure di soppressione vedrebbe, secondo gli studiosi, un rapido rialzarsi dei contagi, obbligando dunque a mantenerle in vigore per tutto il periodo predetto, tutt’al più con intermittenti periodi di rilassamento. È per questo che, pur preferendo dal punto di vista medico la strategia di soppressione, i ricercatori concludono che la scelta spetta alla politica considerando i differenti contesti sociali.

Questo ci porta a parlare della situazione italiana. Lo sforzo di soppressione è fondamentale per evitare che, soprattutto in Lombardia e nelle altre regioni maggiormente colpite, il sistema sanitario sia travolto facendo ancor più aumentare il già tragico bilancio di morti. Tuttavia, la prospettiva di un periodo di misure soppressive lungo oltre un anno e mezzo pone una serie di gravissimi problemi sociali, economici e politici.

1. Problema sociale: l’imposizione di misure di soppressione all’intero territorio nazionale è stata finora accolta con favore e partecipazione dalla popolazione. Malgrado casi individuali di negligenza – ampiamente amplificati dai media – gli italiani stanno facendo il proprio dovere. Però siamo solo alla prima settimana. Lungi dal vedere un prossimo rilassamento delle misure, per ora la prospettiva a breve è quella di una stretta ulteriore. Il prolungato confinamento domestico, cui presto si aggiungerà l’impossibilità di passeggiare o fare attività motoria all’aperto, avrà un impatto non solo sulla salute fisica (la sedentarietà è uno stile di vita negativo, che particolari danni può fare su certe categorie di persone – pensiamo ai diabetici o a quanti erano già in sovrappeso) ma anche su quella mentale. Lunghi mesi di reclusione domiciliare, inattività fisica e mancanza di socializzazione sono una prova ardua da sopportare. A differenza della popolazione cinese, quella italiana non è abituata a subire drastiche restrizioni alle sue libertà personali. In questa fase si vedranno inoltre gli effetti dell’aver inculcato nelle ultime generazioni messaggi negativi di individualismo estremo, libertà irresponsabile, ribellione come stile di vita e disciplina quale disvalore. In un momento storico in cui servono abnegazione e disciplina al massimo grado, gli italiani potrebbero trovarsi impreparati rispetto a chi è stato educato secondo princìpi confuciani e abituato a vivere in un sistema autoritario. Il rischio è dunque che, quando nell’opinione pubblica svanirà l’illusione che l’emergenza “finirà presto”, con la caratteristica volubilità della nostra epoca l’entusiasmo muti repentinamente in frustrazione e malcontento, facendo della società italiana una pentola a pressione pronta ad esplodere.

2. Problema economico: le misure di soppressione bloccano interi settori d’attività (come la vendita al dettaglio di beni non di prima necessità) e ne menomano altri (come la ristorazione o la produzione di beni i cui punti vendita sono ora chiusi e devono affidarsi solo alla vendita per corrispondenza), aggiungendosi all’azzeramento del turismo, determinato dall’epidemia a prescindere dalle strategie di risposta prescelte. Il tutto avverrà in un contesto di crisi economica globale e con un debito pubblico già considerevole. Questa crisi si preannuncia più grave di quella del 2008, che riguardava essenzialmente il settore finanziario: l’attuale colpirà il settore produttivo, la creazione di beni tangibili. Oggi non si può rispondere invitando la popolazione a consumare per rimettere in moto l’economia, visto che – al contrario – la strategia è quella di rinchiuderla in casa. L’eccezionalità del caso si vede nell’eccezionalità delle risposte ventilate, come quella degli USA in cui Trump studia di mandare a tutti i cittadini un cospicuo assegno mensile, una sorta di “reddito di cittadinanza” ben fatto. Il rischio, non peregrino, è che l’impatto sia tale da provocare una retrocessione dell’Italia a parametri da Secondo Mondo. L’indignazione collettiva suscitata dai media contro Boris Johnson, reo di aver ventilato l’ipotesi d’adottare strategie di mitigazione, oltre a dipendere dal fraintendimento del significato di quest’ultime (sbrigativamente liquidate come “lasciar morire i malati” dai sciacalli desiderosi di sfruttare anche un’epidemia per fare propaganda “anti-populista”), è dovuta alla sottovalutazione dell’impatto economico dell’epidemia e in particolare della soppressione. Non si tratta di scegliere tra la vita e il profitto. Si tratta di considerare che una retrocessione economica, foss’anche al livello di un Paese est-europeo, avrebbe effetti devastanti: la speranza di vita in Italia è di 82 anni, in Romania di 75 e in Ucraina di 71; la mortalità infantile è rispettivamente 3‰ , 7‰ e 9‰. Una regressione in termini di sviluppo economico – che diviene possibilità non più remotissima nel contesto attuale (pensiamo all’ipotetico ricorso al MES e alla conseguente “cura greca” che rischieremmo) – avrebbe un costo in termini di vite e qualità delle stesse.

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3. Problema politico: severe restrizioni di movimento, posti di blocco nelle strade, necessità di permesso per spostarsi da una città all’altra, lunghe code per acquistare beni di prima necessità. Ciò che oggi stiamo sperimentando ricorderà a più d’uno le scene di vita quotidiana nei vecchi regimi comunisti del secolo scorso. Il paragone non vuole adombrare scenari complottistici, ma mettere in evidenza l’oggettiva invasività che lo Stato, in questa situazione d’emergenza, acquisisce sulla vita dei cittadini. L’esercizio di questo potere è giustificato ma, come recita il proverbio, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. L’esecutivo compie una stretta sulle libertà individuali e collettive. Il Parlamento è aperto ma menomato nella sua vigilanza ed operatività. Il clima da “sforzo bellico”, se da un lato esprime un inatteso ed encomiabile spirito patriottico e comunitario, dall’altro si traduce in una condanna morale verso chiunque osi discutere e criticare l’operato del governo (che, pure, ha oggettive e gravi responsabilità di mismanagement, come abbiamo spiegato qui e qui). Esponenti di governo e interi partiti di maggioranza sono sempre più espliciti nell’indicare la Cina – regime comunista e non certo innocente rispetto all’epidemia in corso – quale nuovo modello e alleato di riferimento. I media si autocensurano con la scusa di “non dare spazio alle polemiche politiche”. Un po’ come dopo la crisi del 2011 la politica fu commissariata dagli economisti, ora i nuovi tecnici sono i medici: il loro contributo è fondamentale nell’elaborazione politica oltre che sul campo (gli ospedali), ma non deve costituirsi a tecnocrazia che escluda la politica stessa, poiché la gestione di un Paese non si riduce alla sanità – nemmeno durante un’epidemia. Nel frattempo, nella popolazione si manifestano quei sentimenti di irrazionalità che sono caratteristici dell’uomo alle prese col nemico invisibile della malattia, non importa quanto sia “evoluta” e “moderna” la società: sperimentiamo sia la caccia all’untore (in questo caso chi osa far pure pochi passi per strada) sia i riti d’espiazione collettiva (l’epidemia è narrata come un castigo verso l’italiano medio che non si piegherebbe ai decreti governativi, e c’è una corsa tra chi stringe di più la vite, arrivando a misure demenziali come proibire la vendita di pizze farcite nei forni di Roma). In questo clima di emergenza e irrazionalità, è necessario che l’eccezione non diventi la regola e che la democrazia non sia messa in quarantena.

Le tre classi di problemi sopra elencati non sono di facile risoluzione. Innanzi tutto è necessario prenderne coscienza. La loro discussione impegnerà a lungo le migliori menti del nostro e di tanti altri Paesi. Qui proponiamo solo alcune raccomandazioni generali:

  • la capacità della società di sostenere drastiche misure di soppressione è limitata. Conseguito l’obiettivo di frenare la crescita esponenziale dell’epidemia, considerando che l’emergenza proseguirà a lungo, sarà opportuno, ogni volta possibile, alleggerire le restrizioni per far respirare i cittadini e smaltire le scorie di frustrazione e malcontento. La sensibilizzazione ed educazione dei cittadini sul distanziamento sociale e l’igiene potrebbe far sì che l’autoregolamentazione supplisca alla regolamentazione d’imperio;
  • le attività economiche vanno messe in condizione d’operare durante tutta la stagione dell’epidemia. Ci sono interi settori (vedi il turistico col suo indotto) che richiederanno di essere totalmente sussidiati dallo Stato, pena fallimenti a catena e milioni di lavoratori licenziati. Se troppa parte della nazione si ferma per un periodo prolungato, sarà impossibile sostenere le perdite;
  • se la lotta al virus è paragonabile a una guerra, allora certe condotte di tempo bellico sono applicabili anche oggi. Tra esse c’è un deciso intervento statale nell’economia e anche una temporanea, limitata pianificazione. Va potenziata (tramite riduzione della burocrazia, incentivi fiscali, commesse statali, riconversione industriale) la produzione di quegli strumenti necessari alla lotta in corso, come ventilatori polmonari, maschere filtranti, mascherine chirurgiche, tamponi, disinfettanti. È fondamentale muoversi per tempo perché i prodotti più complessi (come i ventilatori polmonari, che richiedono competenze avanzate, grossi investimenti, componenti brevettate prodotte in giro per il mondo) necessitano di tempo prima di poter inaugurare nuove linee di produzione. Se medici e infermieri sono i combattenti di prima linea, va incrementato il loro numero rendendo temporaneamente più rapida la formazione e l’abilitazione, come già si è cominciato a fare. Maggiori sono le capacità del sistema sanitario di curare i malati, minori saranno le pressioni da esercitare su società ed economia;
  • prendendo a modello quanto attuato in Corea del Sud o Israele, bisogna impiegare le moderne tecnologie di tracciamento ed elaborazione per individuare le persone a rischio e isolarle. Tali misure sono inefficaci nel momento che il contagio è ampiamente diffuso, ma se si riesce a farlo recedere con misure di soppressione generalizzate, possono rientrare in campo quali surrogati per permettere almeno temporanei rilassamenti del regime di blocco;
  • bisogna stimolare un grande e coordinato sforzo internazionale per giungere nei tempi più rapidi possibili al vaccino, unico sicuro mezzo per vincere definitivamente la guerra al Covid-19.

Daniele Scalea è Presidente del Centro Studi Machiavelli.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.