Alcuni anni fa un economista di fama internazionale, Luigi Zingales, dichiarava in tv che l’Italia non avrebbe dovuto “buttare via i soldi” nelle biotecnologie o similia, ma piuttosto puntare sul turismo perché “ci sono 1 miliardo e 400 milioni di cinesi che vogliono visitare Roma”. Suonano amaramente ironiche, queste aspettative da ortodosso del liberismo e della divisione internazionale del lavoro, nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Non solo perché, se oggi avessimo in giro per lo Stivale anche solo una frazione del 1,4 miliardi di cinesi promessi da Zingales, l’epidemia che già ci mette in ginocchio apparirebbe al confronto un raffreddorino stagionale; ma pure perché le conseguenze economiche su un’Italia votatasi integralmente al turismo provocherebbero il subitaneo precipitare in condizioni da Terzo Mondo.

Già così, col turismo che vale direttamente il 5% del PIL e indirettamente il 13%, pensare all’impatto che la crisi sanitaria avrà sulla nostra economia fa tremar le vene e i polsi. Anche se l’epidemia fosse debellata nel giro di uno o due mesi, prima che i turisti ritornino in Italia passerà assai più tempo: nel migliore dei casi, la stagione 2020 è persa. A ciò si aggiungeranno una probabile crisi economica mondiale, sempre indotta dal virus cinese, oltre a tutte le conseguenze che la quarantena domestica imposta agli italiani avrà su negozi, esercizi aperti al pubblico, e pressoché ogni altro settore produttivo e dei servizi. Non si vuol fare né sensazionalismo né castrofismo, ma questa crisi sembra destinata ad avere un profondo impatto sistemico, tanto che nel volgere di poche settimane nessuno scenario d’evoluzione a medio-lungo termine può più essere escluso a priori. Ad esempio: l’Italia potrà sopravvivere ed uscire dalla depressione in cui sprofonderà rimanendo entro i parametri e i vincoli dell’eurozona?

Nel breve termine, tuttavia, l’emergenza sanitaria ha la precedenza ed è dovere di tutti i cittadini rispettare disciplinatamente le misure decise dal Governo. Il che non corrisponde, ovviamente, ad annullare lo spirito critico ma solo a subordinarsi alle direttive: siamo in quarantena, non in dittatura, ed è inaccettabile che ogni giudizio sulle autorità sia equiparato a sciacallaggio. È anzi imperativo mantenere alta l’attenzione poiché – si ragiona ora in linea puramente teorica – se il Governo si rivelasse incapace di gestire l’emergenza, il popolo sovrano, tramite i suoi rappresentanti, avrebbe il diritto/dovere di esonerarlo e sostituirlo. La democrazia non è in quarantena.

In tal senso, va subito notato che la drastica misura d’estendere la “zona arancione” a tutto il Paese non può essere addossata esclusivamente all’irresponsabilità degli Italiani. È vero: molti, troppi, hanno preso sotto gamba la situazione, continuando a radunarsi o viaggiare per svago. È però altrettanto vero che due settimane fa la stessa maggioranza di governo aveva suggerito una linea tranquillizzante: mentre Conte sgridava i media per il troppo allarmismo (e quelli si adattavano dando al post social di una direttrice di laboratorio lo stesso peso del parere professionale di virologi e epidemiologi), il sindaco di Milano Sala riapriva la città, spalleggiato dal segretario del suo partito, Nicola Zingaretti, che addirittura invitava ad uscire in gruppo per gli aperitivi.

Del resto questo passaggio del medesimo Governo, dal minimizzare e invitare a uscire al bloccare il Paese in quarantena, è solo l’ultimo assaggio di un atteggiamento ondivago, che non chiarisce e non tranquillizza, né dà l’idea che ci sia davvero contezza di cosa fare e come risolvere l’emergenza. Un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ogni 24 ore non è indice di prontezza nel rispondere agli eventi, ma d’incapacità di prevederli anche a brevissimo termine. Ricapitoliamo: la notte tra il 7 e l’8 marzo Conte decreta la chiusura di una fetta del Nord Italia, con l’incresciosa fuga di notizie che porta decine di migliaia di persone (plausibilmente con qualche infetto in mezzo a loro) a riversarsi verso Sud; la sera del 9 marzo, la zona arancione è estesa ovunque annullando la motivazione che aveva suscitato quell’esodo. L’unico effetto di aver emanato due decreti in due giorni è stato quello di aver dato una spinta all’allargarsi del contagio.

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Ritorniamo più indietro nel tempo. Lo stesso Conte che il 29 gennaio (ricovero a Roma dei due cinesi fatti incredibilmente arrivare da Wuhan) decreta lo stato di emergenza e chiude i voli diretti dalla Cina (salvo lasciare entrare indisturbatamente via voli indiretti), tre settimane prima ammoniva i Governatori del Nord, che chiedevano quarantena per chi arrivava dal Paese asiatico, che tale misura sarebbe stata “discriminatoria” e che invece dovevano “fidarsi” perché tutto sarebbe andato bene. L’abbiamo visto…

L’esplosione dell’epidemia in Hubei, non possiamo dimenticarlo, fu occasione per la Sinistra (a proposito di sciacallaggio…) di lanciare l’ennesima, stantia campagna “anti-razzista”, con slogan di “Abbraccia un cinese” e giornalisti-militanti che mangiavano involtini primavera in diretta tv (fra poco arriverà anche qui la moda americana, secondo cui collegare il virus alla Cina sarebbe razzista). Per non “discriminare” poche centinaia di persone da mettere in quarantena, oggi in isolamento sanitario ci vanno 60 milioni di italiani. Forse – va ammesso – nemmeno quella misura avrebbe salvato dall’epidemia. Negli USA e in Australia l’hanno adottata ma il virus è arrivato comunque: tuttavia, malgrado per ragioni geografiche e/o di connessioni con la Cina tutto avrebbe lasciato supporre che sarebbe là esploso prima che in Italia, è avvenuto il contrario. Ed essere stati il primo Paese occidentale alle prese con l’epidemia non è secondario: noi abbiamo avuto davanti come modello di risposta solo il regime comunista cinese (non sempre imitabile), mentre gli altri potranno vedere come ha reagito pure uno Stato liberale – e scegliere se seguire o meno ciò che si è fatto da noi.

Non sappiamo dunque se saranno questi dirigenti a dover guidare ancora a lungo l’Italia; ma, chiunque sia il nocchiere nella traversata dei mari tempestosi che ci aspettano, sarà l’occasione per ripensare certe logiche globaliste: l’indisturbato movimento transfrontaliero delle genti, la delocalizzazione di produzioni importanti (vedi farmaci e articoli sanitari) lontano dal territorio nazionale, la preminenza del politicamente corretto sull’interesse pubblico.


Daniele Scalea è Presidente del Centro Studi Machiavelli.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.