di Nathan Greppi

In Italia fortunatamente non siamo ancora arrivati a tanto (forse anche perché il nostro sistema accademico è più basato sui fondi pubblici e meno dipendente dagli investimenti privati), ma nei Paesi anglosassoni capita sempre più spesso che atenei e centri di ricerca si vedano rifiutare finanziamenti perché non seguono le nuove mode del politicamente corretto. Come abbiamo già raccontato, l’anno scorso in Canada un ricercatore non è riuscito ad ottenere dei fondi in quanto il suo progetto di ricerca non era abbastanza “inclusivo verso le minoranze”. In quest’articolo raccontiamo come, più di recente, sia stata l’Australia il teatro di polemiche dello stesso genere.

Cos’è successo

I fatti sono questi. Il 28 febbraio, l’Università di Melbourne ha conferito sei dottorati honoris causa ad altrettante figure eccellenti in vari campi: dalla biologia alle scienze veterinarie passando per l’imprenditoria. Alla cerimonia, il rettore Allan Myers ha spiegato che questo riconoscimento “viene conferito a coloro che, con il proprio lavoro, hanno trasformato la nostra comprensione del mondo e la vita di molte persone”.

Tuttavia, agli occhi di molti i sei premiati avrebbero una “colpa”: quella di essere tutti maschi e bianchi. Ciò ha spinto, lunedì 7 marzo, la Snow Medical Research Foundation, uno dei maggiori enti non profit australiani che finanzia la ricerca medica, ad interrompere i rapporti con l’ateneo di Melbourne e a rimuoverlo dalla lista di quelli che possono riceverne le donazioni. La fondazione ha affermato che i suoi “risultati sull’uguaglianza di genere e la diversità non sono in linea con i valori di Snow Medical”. La fondazione in passato aveva donato 24 milioni di dollari al Parkville, il principale campus dell’Università di Melbourne, che l’anno scorso ha vinto due delle loro fellowships per un totale di altri 16 milioni.

Nel comunicato di Snow Medical si legge testualmente: “Sfortunatamente, la settimana scorsa l’Università di Melbourne ha conferito il suo premio più prestigioso, il dottorato honoris causa, a sei maschi bianchi. Inoltre, negli ultimi tre anni, il dottorato honoris causa non è stato assegnato a donne o persone di discendenza non bianca. Questo è inaccettabile”. Nell’ultimo triennio, il riconoscimento era stata conferito ad altri due uomini nel 2020. Nel 2019, tuttavia, su sei vincitori tre erano donne, ed una di esse era Pat Anderson, aborigena e attivista per i diritti umani.

Quella di non finanziare più la ricerca medica dell’ateneo “è stata una decisione difficile per la nostra famiglia, ma che abbiamo preso con orgoglio”, si è vantato in un tweet Tom Snow, presidente del consiglio d’amministrazione della fondazione.

La reazione dell’università

Non sono mancati tentativi da parte dell’università di risolvere la questione per non perdere i finanziamenti. In fondo al comunicato in cui venivano annunciati i vincitori di quest’anno, è stato aggiunto un paragrafo in cui si metteva in evidenza che altri vincitori, tra cui tre donne e un membro di una minoranza indigena, non hanno potuto partecipare di persona alla cerimonia e verranno premiati in data ancora da stabilire.

L’8 marzo, il giorno dopo l’interruzione dei rapporti, un comunicato dell’Università di Melbourne spiegava:

Se da un lato riconosciamo che ci sono aree in cui dovremmo migliorarci, dall’altro la Snow Medical ha preso la sua decisione sulla base di una singola cerimonia di premiazione. Questo evento non riflette veramente chi siamo come università e i passi avanti che stiamo facendo, e continueremo a fare, per costruire una comunità accademica variegata, che rifletta la società più ampia.

Nel comunicato si nota anche che, dal 2019 ad oggi, cinque dei sei nuovi membri della direzione sono donne.

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Commenti nei media

Sui media australiani sono stati pochi i commenti critici su questa eccessiva attenzione all’inclusione di determinate categorie a discapito del merito. Paul Murray, commentatore politico di “Sky News Australia”, ha dichiarato che “questa roba è pericolosa … perché per tutta questa spazzatura ci sarà una reazione uguale e contraria. Cosa succederà quando i maschi bianchi inizieranno a sentirsi discriminati, perché di fatto è quello che sta succedendo sempre di più, e inizieranno a coalizzarsi? Tutto ciò ci sta solo dividendo”.

Ampiezza del fenomeno

Non sono mancati, nel corso degli anni, episodi che provano la diffusione capillare dell’ideologia woke e degli eccessi del politicamente corretto in Australia.

Di recente il CSIRO (Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation), principale ente governativo per la ricerca scientifica, ha smesso di riconoscere il sesso biologico come unico criterio valido per definire l’identità sessuale di una persona. Ha conseguentemente deciso di offrire al proprio personale delle licenze per farsi fare operazioni chirurgiche al fine di essere “riassegnati” al sesso con il quale dicono di identificarsi. Inoltre, tutti i loro dipendenti sono tenuti a seguire dei corsi per essere “allenati” ad accogliere varie categorie di genere come i trans e i non binari. Sul sito dell’organizzazione i ricercatori possono scrivere con quale pronome desiderano essere chiamati.

Stando ad una ricerca pubblicata nell’agosto 2020 dal Center for Independent Studies, un pensatoio australiano di matrice libertaria, dopo l’uccisione di George Floyd ci sono stati diversi tentativi di importare l’ideologia di Black Lives Matter e la cultura della cancellazione, con tutto ciò che ne consegue. Nello stesso modo in cui negli Stati Uniti si colpivano statue di Cristoforo Colombo, poiché accusato di aver dato il via allo sterminio dei nativi americani, a Sidney era vandalizzata una statua dell’esploratore britannico James Cook, scopritore dell’Australia, al quale si riconduceva l’inizio dell’oppressione degli aborigeni.

Non se la passa tanto meglio la vicina Nuova Zelanda, tutt’altro. Alle Olimpiadi di Tokyo 2020 sono stati il primo Paese a mandare una persona biologicamente uomo, il sollevatore di pesi Gavin/Laurel Hubbard, a gareggiare nelle competizioni femminili in quanto transessuale. Sempre nel 2021, in seno alla Royal Society della Nuova Zelanda si è iniziato ad equiparare alcune credenze degli indigeni maori alle scienze moderne; come se non bastasse, alcuni accademici affiliati all’ente che hanno contestato queste posizioni sono stati oggetto d’indagine da parte del datore di lavoro. E non mancano nelle università neozelandesi accademici che accusano il proprio Paese di essere stato fondato sull’imperialismo e la discriminazione di genere.

Per ironia della sorte, la Nuova Zelanda, che sembra voler fare ammenda per un presunto passato colonialista e sessista, è stata un baluardo dei diritti in tempi non sospetti: nel 1893, prima al mondo, ha riconosciuto il diritto di voto alle donne; nel 1867 ha dato il diritto di voto ai maori, circa un secolo prima che venisse concesso ai neri negli Stati Uniti.

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).