di Nathan Greppi

Negli ultimi anni in Occidente, in particolare nei Paesi anglosassoni, si è assistito all’ascesa di nuovi fenomeni politici e sociali che hanno portato orde di attivisti e manifestanti a distruggere monumenti storici identificati con lo schiavismo e il colonialismo o ad emarginare intellettuali e artisti politicamente scorretti.

Sebbene questi fenomeni siano diventati evidenti in seguito a recenti ondate, prima con l’elezione di Donald Trump nel 2016 e poi con la morte di George Floyd nel 2020, la loro radice è molto più profonda. Per darle un nome e inquadrarla meglio, alcuni pensatori conservatori l’hanno chiamata “oicofobia”, ossia la paura e l’avversione per la propria casa e le proprie radici.

Chi, in Italia, ha provato a riassumere il dibattito sul tema a fini divulgativi è Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, che ha recentemente pubblicato con la casa editrice Eclettica il saggio Oicofobia. Il ripudio della nazione.

Le origini

Partiamo dall’inizio: oicofobia deriva dal greco oikos, “casa”, e phobia, “paura”. In pratica, allo stesso modo in cui la xenofobia è la paura per ciò che è diverso, “altro” rispetto a noi, l’oicofobia è al contrario l’avversione o paura per ciò che ci è familiare. Tuttavia, tra i due fenomeni ci sarebbero differenze marcate: il primo è che la xenofobia è molto più conosciuta e ci sono innumerevoli iniziative per contrastarla, mentre nel caso dell’oicofobia non è così. Inoltre, se la paura del diverso può permeare tutte le classi sociali, secondo Pupo l’odio di sé colpisce principalmente le persone più istruite.

Gli addetti ai lavori generalmente attribuiscono il merito di aver coniato il termine al filosofo inglese conservatore Roger Scruton, il quale intitolò proprio Oikophobia un articolo scientifico pubblicato nel 1993 su “The Journal of Education”, per denunciare quello che lui vedeva come un ripudio dell’identità nazionale da parte di certi intellettuali.

Tuttavia, il termine era già apparso in ambito psichiatrico più di un secolo prima: lo psichiatra italiano Bernardo Salemi Pace, professore all’Università di Palermo e direttore dell’ospedale psichiatrico locale, tra il 1881 e il 1882 vi dedicò due opere (Due casi singolari di oicofobia od orrore alla propria casa e Sulla oicofobia) per trattare di persone che, a causa di un trauma, non volevano tornare nella casa in cui erano cresciuti. Tra la fine del ‘900 e gli anni 2000, il termine venne sempre più traslato in ambito politico, per indicare coloro che coltivano un odio per la propria patria o le proprie origini.

Dibattito in corso

L’autore va avanti illustrando tutte le maggiori discussioni e dichiarazioni sul tema dell’odio di sé e del senso di colpa occidentale da parte di quasi tutti i più importanti intellettuali che se ne sono occupati, in Europa e in America.

Viene fatto notare come, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il nazionalismo e l’amore per la nazione siano stati sempre più visti con ostilità, poiché associati alle esperienze dei totalitarismi nazista e fascista. In seguito, la critica all’Occidente capitalista e colonialista venne portata avanti da varie correnti marxiste, e in particolare dalla Scuola di Francoforte. Il sentimento terzomondista venne influenzato dagli studi post-coloniali che hanno il loro capostipite nello storico palestinese-americano Edward Said. Sul tema del nazionalismo, viene riportata ad esempio l’opinione di George Orwell, il quale nel suo saggio Sul nazionalismo faceva una distinzione tra quest’ultimo e il patriottismo: se il nazionalista è guidato dalla sete di potere, volendo distruggere o annettere altre nazioni alla propria, il patriota è colui che agisce per difendere la sua terra e la sua casa.

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Anche se non viene mai citato direttamente, il libro sembra richiamare le tesi del filosofo israeliano Yoram Hazony, che nel suo libro Le virtù del nazionalismo sosteneva che la Germania nazista in realtà non era nazionalista, bensì imperialista, nel senso che non era spinta dal desiderio di difendersi, ma di invadere e conquistare l’Europa. Un imperialismo che Hazony attribuisce anche alla vecchia Unione Sovietica, e negli ultimi anni all’Unione Europea.

Pupo fa inoltre notare un aspetto spesso dimenticato, ma che invece andrebbe sempre rimarcato: se è vero che i Paesi occidentali hanno praticato in passato politiche razziste e schiaviste, è altrettanto vero che quegli stessi Paesi sono quelli che hanno sconfitto al loro interno il razzismo e lo schiavismo, senza interventi esterni. Quante nazioni, in Asia e in Africa, possono dire lo stesso?

Il contesto italiano

Per quanto riguarda l’Italia, nonostante da noi la cancel culture sia molto meno diffusa che all’estero, Pupo fa notare come nel nostro Paese il sentimento patriottico sia da sempre meno sentito che altrove, anche per il nostro passato di Paese diviso in tanti piccoli Stati. È emblematica, in tal senso, una citazione tratta da Oriana Fallaci: nel suo libro La rabbia e l’orgoglio, la giornalista fiorentina raccontava come nel 2001, quando viveva a New York, gli operai newyorkesi sventolassero con orgoglio la bandiera americana alle loro manifestazioni.

Un modo di fare, a detta della Fallaci, ben diverso da quello della classe operaia italiana:

Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse, agli operai italiani. Fiumi, laghi di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolare pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra devota all’Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari.

Conclusioni

Spartaco Pupo ha il merito di illustrare in maniera non troppo complessa come è nata l’oicofobia e di spiegare perché è una potenziale minaccia per la società, nonché di aver dato risalto ad un concetto poco conosciuto anche tra quei conservatori che avrebbero validi motivi per prendere sul serio la questione. E lo fa con un linguaggio semplice, che rende la lettura più piacevole.

Con Hazony, Pupo sembra condividere una visione “teocentrica” della nazione, dove preferirebbero esistesse un’unica religione di Stato e non sembra esserci spazio per il pluralismo religioso. Eppure, proprio quest’ultimo è da considerarsi un vanto del Risorgimento italiano, che liberò le minoranze ebraica e valdese dalle discriminazioni messe in atto per secoli dalla Chiesa preconciliare.

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).