di Guglielmo Picchi

Il dibattito dei media italiani sulla Libia si caratterizza per l’attenzione posta sui migranti e gli scontri militari tra il generale Haftar e Al Serraj, tralasciando questioni molto meno appetibili per l’opinione pubblica ma molto più strategiche anche per il nostro paese.

Le cronache sono – giustamente – piene di commenti e analisi sul ruolo della Russia e della Turchia nella crisi libica, e denunciano spesso la mancanza di interesse per l’area da parte USA, i quali non sono certamente presenti sul terreno – negli scontri tra le milizie, tra mercenari russi e siriani o ufficiali di collegamento russi turchi ed emiratini – ma sono coinvolti molto direttamente nel processo di stabilizzazione della Libia su dossier di importanza strategica quali la ripresa della produzione petrolifera, la nomina del prossimo rappresentante speciale dell’ONU e il dopo-Haftar (che potrebbe essere travolto dal presunto traffico di oro/dollari con il regime di Maduro).

Proprio in questi giorni la compagnia petrolifera libica, la National Oil Corporation (Noc), ha riaperto i terminal di esportazione petrolifera libici e annunciato il graduale aumento di produzione, che richiederà molto tempo a causa del grave danno ai serbatoi e alle infrastrutture provocato dalla chiusura imposta dal 17 gennaio. Mustafa Sanallah, direttore della Noc, ha confermato che le infrastrutture sono state danneggiate in modo permanente e che sia quindi prioritario ripristinarle e fare in modo che la produzione di petrolio della Libia non venga compromessa di nuovo. Le stime parlano di un calo della produzione da 1,2 milioni di barili al giorno a soli 100.000 e di un danno economico di 6,5 miliardi di dollari, cui si devono aggiungere i danni indiretti all’economia libica nel suo complesso e gli enormi costi aggiuntivi per la riparazione dell’infrastruttura.

Per gli USA è di interesse strategico la tenuta del mercato mondiale del petrolio e quindi non ne sarà sfuggito l’intervento decisivo sugli emiratini per rimuovere il veto alla ripresa della produzione libica. Perciò, sebbene per motivi più globali, è innegabile che l’intervento americano allontani la guerra e sia fattore di stabilizzazione dell’area.

A conferma dell’interesse USA nelle dinamiche libiche ci sono gli sforzi diplomatici messi in capo per far promuovere Stephanie Williams da acting special representative dell’ONU al ruolo di inviato speciale permanente al posto di Ghassam Salamé.

Questa nuova fase della stabilizzazione libica lascia molti nodi aperti: ad esempio chi effettuerà gli investimenti per la ripresa produttiva o come saranno spartiti i relativi proventi; ma sopratutto non fornisce risposte sulle partite aperte dalla disfatta militare di Haftar, lo status di Sirte e la sostituzione stessa del generale.

Il candidato naturale a sostituire il generale sembrerebbe essere Agila Saleh, presidente del parlamento di Tobruk, istituzione regolarmente “eletta” e prevista dall’accordo Onu del 2015, che si è distinto in tempi recenti per un notevole attivismo e per le prese di posizione differenziate rispetto ad Haftar. Saleh, con ottimi rapporti in Egitto e nel Golfo, ha proposto una road map per risolvere la crisi libica, denominata “dichiarazione del Cairo”, che prevede il superamento degli accordi ONU con la fine del Governo di accordo nazionale, l’istituzione di un nuovo Consiglio presidenziale federale formato dai tre rappresentanti delle regioni (Cirenaica, Fezzan e Tripolitania), la nomina di un governo transitorio con un primo ministro distinto dal presidente, in carica fino a nuove elezioni da organizzare in una fase successiva.

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L’attivismo di Saleh conferma la traballante posizione di Haftar, che indubbiamente rischia di perdere molti dei propri sponsor interni ed esterni alla Libia a seguito della fallimentare campagna militare contro Tripoli e che potrebbe essere messo definitivamente fuori gioco dagli USA (che pure avrebbero addirittura benedetto nel 2019 l’inizio dell’offensiva su Tripoli) a causa di un presunto traffico di oro e dollari con il Venezuela. Infatti, secondo quanto riporta “The Wall Street Journal”, gli USA starebbero investigando sull’esistenza di un accordo secondo il quale il generale Khalifa Haftar comprerebbe l’oro di Maduro pagandolo nella valuta pregiata di cui il regime venezuelano ha assolutamente bisogno. Secondo varie fonti di intelligence il jet privato di Haftar si sarebbe recato nella capitale del Venezuela Caracas per caricare oro e consegnare dollari al regime di Maduro, che non può accedere al mercato internazionale del petrolio per via delle stringenti sanzioni imposte dagli USA. A conferma delle tesi del WSJ, proprio il mese scorso David Schenker, Assistant Secretary of State per il Medio Oriente, in una conferenza stampa ha affermato di aver visto i report sul viaggio di Haftar in Venezuela e di trovarli preoccupanti.

Lo schema identificato dal WSJ è plausibile non solo dal lato di Maduro, non nuovo a scambi di questo tipo come quello di petrolio/oro/benzina in essere con l’Iran, ma anche da quello di Haftar, il quale è sempre a rischio di essere sottoposto a sanzioni: in quel caso gestire oro è molto più facile e meno tracciabile che non depositi bancari o addirittura contante.

Se quindi l’amministrazione Trump parrebbe non interessarsi più di tanto al Mediterraneo o alla situazione in Libia, i fatti recenti dimostrano il contrario e quanto in realtà gli USA siano coinvolti nelle dinamiche libiche, lasciando però la ribalta mediatica a Turchia e Russia e alla loro guerra sporca boots on the ground.

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Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.