Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, gli Stati Uniti hanno condotto un attacco aereo senza precedenti contro tre siti nucleari iraniani, avviando l’operazione “Midnight Hammer”. L’azione, tra le più imponenti mai realizzate dai bombardieri stealth B-2, rappresenta una svolta radicale nella strategia statunitense verso Teheran, dopo anni di contenimento, sanzioni e deterrenza.

L’iniziativa militare statunitense si inserisce nel contesto di una più ampia escalation avviata da Israele con l’operazione “The Rising Lion”, caratterizzata da attacchi mirati contro l’élite militare iraniana, contro i suoi scienziati atomici e contro obiettivi strategici, tra cui quelli nucleari.

A dispetto dell’efficacia tattica dell’operazione, Tel Aviv sapeva che per ottenere una vittoria strategica sarebbe stato necessario il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Solo Washington, infatti, dispone della tecnologia necessaria per colpire l’impianto di Fordow (le GBU-57A/B Massive Ordnance Penetrators), il più importante centro nucleare situato a oltre 100 metri sottoterra. Inoltre, l’obiettivo della strategia israeliana sembra essere un cambio di regime in Iran: risultato che da solo non può realisticamente raggiungere. Per queste ragioni, Tel Aviv ha cercato di trascinare l’amministrazione Trump nel conflitto.

L’impero colpisce ancora

Nonostante le pressioni, il presidente Donald Trump aveva inizialmente escluso un intervento militare diretto, preferendo puntare sull’intimidazione e sul negoziato. Anche dopo gli attacchi israeliani in territorio iraniano di giovedì 20 giugno, Trump aveva ribadito la volontà di evitare una guerra. Tuttavia, numerosi segnali indicano che una collaborazione tra le intelligence statunitense e israeliana nella pianificazione dell’attacco a Teheran era già attiva da tempo. Una circostanza tutt’altro che sorprendente, dal momento che i due Paesi hanno una lunga storia di cooperazione nella condivisione d’intelligence, soprattutto sul programma nucleare iraniano.

Un primo indizio in tal senso è rappresentato dal fatto che l’intervento statunitense ha avuto inizio con quella che molti analisti hanno interpretato come un’operazione diversiva, a dimostrazione di una pianificazione congiunta, sofisticata e anticipata.

Infatti, mentre i riflettori erano puntati su alcuni bombardieri B-2 decollati dalla base di Whiteman (Missouri) e diretti apparentemente verso Guam, il vero gruppo d’attacco, composto da sette stealth B-2 Spirit, è partito in segreto, volando verso est per 18 ore, mantenendo il silenzio radio e rifornendosi in volo. Secondo l’agenzia Reuters, si tratta della più vasta missione operativa di sempre per questo tipo di velivolo, seconda solo a quelle successive all’11 settembre 2001 ai danni di Al Qaeda.

L’offensiva ha avuto luogo tra le 02:10 e le 02:35, ora locale iraniana, e i tre i principali obiettivi interessati sono stati l’impianto di Fordow, distrutto con bombe bunker-buster GBU-57 E/B, l’impianto di Natanz, colpito con una combinazione di bunker-buster e missili da crociera Tomahawk, e infine il Centro nucleare di Isfahan, anch’esso bersagliato con missili Tomahawk.

Midnight Hammer: quali risultati?

Dal punto di vista dell’esercito statunitense, l’operazione è stata un clamoroso successo tattico. Gli iraniani non sono riusciti a sparare un solo colpo contro gli aerei americani e sono stati colti completamente di sorpresa, secondo le dichiarazioni del generale Dan Caine, capo dello Stato Maggiore Congiunto. Midnight Hammer era un’operazione altamente classificata, ha detto Caine, e pochissime persone a Washington conoscevano i tempi o la natura del piano. Molti alti funzionari degli Stati Uniti ne sono venuti a conoscenza solo sabato sera. Hegseth ha affermato che ci sono voluti mesi di preparazione per garantire che l’esercito statunitense fosse pronto e Caine ha affermato che la missione vera e propria si è poi concretizzata nel giro di qualche settimana.

Poche ore dopo l’attacco, Trump ha dichiarato che gli impianti nucleari iraniani erano stati “completamente e totalmente distrutti”, sostenendo di aver “debellato la minaccia atomica”. In realtà, le prove a supporto di tali affermazioni restano limitate. Le sue dichiarazioni, tese a presentare l’operazione come un successo pieno e risolutivo, suggeriscono che l’intervento fosse stato preparato anche sul piano della comunicazione, attraverso un’analisi attenta degli effetti mediatici e politici che esso avrebbe scatenato.

Diversi funzionari iraniani hanno comunicato che i siti erano stati evacuati giorni prima, e immagini satellitari mostrano un traffico sospetto di camion in uscita da Fordow nei giorni precedenti all’attacco. Secondo l’emittente statale iraniana e l’AEOI (Atomic Energy Organization of Iran), una parte del materiale, forse incluso il prezioso uranio arricchito, è stato spostato altrove, in un sito definito “invulnerabile e sicuro”. Inoltre, alcuni analisti internazionali sottolineano che, sebbene un impianto possa essere fisicamente distrutto, le conoscenze tecniche e scientifiche accumulate in decenni non possono essere eliminate con le bombe.

Trascinare l’America in guerra?

L’operazione Midnight Hammer segna uno spartiacque nella politica di sicurezza statunitense in Medio Oriente e nel confronto pluridecennale con l’Iran. Eppure, al di là del successo tattico rivendicato da Washington, restano forti dubbi sulla reale efficacia strategica dell’intervento.

Tel Aviv, da anni impegnata a contrastare il programma nucleare iraniano, ha progressivamente trascinato Washington in un confronto diretto con Teheran, consapevole che solo l’intervento statunitense, con mezzi militari e capacità tecnologiche superiori, avrebbe potuto garantire un colpo significativo alle infrastrutture nucleari del nemico.

L’obiettivo dichiarato di questa strategia sembra andare ben oltre la distruzione fisica di impianti sotterranei: ciò che emerge è l’ambizione, ancora non condivisa apertamente da parte dell’establishment statunitense, di favorire un cambio di regime.

Tuttavia, scenari recenti, come il pantano dell’Iraq e dell’Afghanistan, dimostrano che l’idea che si possa instaurare un governo filoccidentale tramite la forza militare appare profondamente problematica e rischiosa.

Una simile ambizione rischia, inoltre, di rafforzare la componente ideologica su cui l’Iran potrebbe fare leva per legittimare il proprio programma nucleare, presentandolo come uno strumento indispensabile di autodifesa e sopravvivenza nazionale di fronte all’aggressione congiunta di due nemici storici.

L’attacco, piuttosto che neutralizzare la minaccia, rischia quindi di alimentare una spirale di violenza che coinvolgerà le milizie regionali alleate di Teheran, oltre a mettere in crisi l’equilibrio già precario con Russia e Cina. Anche se, al momento, le due superpotenze sembrano limitarsi a osservare la situazione dietro le quinte, evitando un coinvolgimento diretto nello scenario mediorientale.

La reazione iraniana

A seguito degli attacchi statunitensi, l’Iran sembra aver rafforzato la convinzione che il proprio programma nucleare rappresenti una garanzia di sicurezza nazionale, soprattutto alla luce delle offensive subite nelle ultime settimane, oltre che un simbolo di indipendenza e deterrenza per il Paese. L’unico scenario in cui Teheran potrebbe valutare l’abbandono definitivo del programma atomico sarebbe un cambiamento di regime, opzione ad altissimo rischio.

Nel frattempo, Teheran ha agitato lo spettro della chiusura dello Stretto di Hormuz, un passaggio marittimo cruciale attraverso il quale transita circa un quarto del petrolio mondiale. Sebbene una simile mossa comporterebbe rischi anche per i rapporti con Pechino, tra i principali importatori di greggio iraniano, la minaccia rappresenta uno strumento di pressione strategica.

In risposta all’offensiva statunitense, i Pasdaran hanno minacciato apertamente: “Ogni cittadino americano nella regione è un obiettivo”. Attualmente, Washington dispone di otto basi permanenti in sette Paesi della regione: Egitto, Kuwait, Bahrain, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, con una presenza complessiva di circa 40.000 militari americani. Di contro, Teheran gode di un ampio arsenale di missili balistici e da crociera in grado di colpire tutte le principali installazioni statunitensi nel Golfo, in Iraq e nel Levante.

Lunedì 23 giugno, la tensione ha raggiunto un nuovo picco quando l’Iran ha lanciato un attacco missilistico contro la base aerea statunitense di Al Udeid, in Qatar, una delle principali installazioni militari americane nella regione. Le autorità catariote hanno confermato che i missili sono stati intercettati con successo, senza causare danni. Secondo Reuters, si tratta dell’unica base colpita in questa fase di rappresaglia.

Un funzionario della difesa statunitense ha dichiarato che la base è stata bersagliata da missili balistici a corto e medio raggio provenienti Teheran, ma non ci sono stati impatti diretti nei pressi dell’installazione, situata nei pressi della capitale Doha.

Dopo l’attacco, la Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha pubblicato su X un messaggio volto a ribadire le intenzioni del Paese:

“Non abbiamo violato i diritti di nessuno e non accetteremo in nessuna circostanza alcuna violazione contro di noi, né ci arrenderemo all’aggressione di nessuno; questa è la logica della nazione iraniana”.

Il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano ha, inoltre, precisato che l’azione militare è stata condotta lontano dalle aree residenziali del Qatar e non intendeva rappresentare una minaccia per il Paese interessato. In una nota ufficiale ha dichiarato:

“Questa azione non rappresenta alcuna minaccia per il Paese amico e fraterno del Qatar e per il suo nobile popolo. La Repubblica islamica dell’Iran resta impegnata a mantenere relazioni cordiali e storiche con il Qatar”.

Tuttavia, Doha ha condannato con fermezza l’attacco, definendolo una chiara violazione della propria sovranità. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha commentato la portata della risposta iraniana, definendola una “reazione molto debole”, pur ringraziando la leadership di Teheran per la “tempestiva comunicazione” dell’attacco. Secondo fonti della Casa Bianca, la rappresaglia iraniana sembrerebbe essere stata calibrata con l’intento di riflettere l’intensità dell’attacco americano, in particolare per quanto riguarda il numero di missili impiegati.

L’Iran aveva comunque già annunciato pubblicamente la propria intenzione di rispondere ai bombardamenti americani, e diversi segnali lasciavano presagire una risposta imminente. Poche ore prima dell’attacco, infatti, Stati Uniti e Regno Unito avevano invitato i propri cittadini a rifugiarsi in luoghi sicuri, mentre il Qatar aveva deciso di chiudere temporaneamente il proprio spazio aereo.

E all’improvviso scoppia la pace?

Poche ore dopo l’attacco missilistico iraniano contro la base statunitense di Al Udeid in Qatar, il presidente Donald Trump ha pubblicato un messaggio su Truth annunciando che Iran e Israele avevano concordato un “CESSATE IL FUOCO completo e totale“.

Secondo quanto scritto, la tregua sarebbe entrata in vigore una volta concluse le “missioni finali in corso” da entrambe le parti. “Ufficialmente, l’Iran inizierà il cessate il fuoco, alla dodicesima ora lo seguirà Israele, e alla ventiquattresima ora la FINE ufficiale della GUERRA DEI 12 GIORNI sarà celebrata dal mondo intero”, ha aggiunto Trump.

Un alto funzionario statunitense ha rivelato che l’accordo è stato il frutto di colloqui tra Washington e Teheran. I rappresentanti iraniani, infatti, avrebbero comunicato all’amministrazione Trump la disponibilità a riprendere i negoziati sul programma nucleare, a condizione che Israele interrompesse i bombardamenti.

Fino al mattino seguente, tuttavia, gli scontri non si sono fermati. Nelle prime ore della giornata, un attacco missilistico iraniano contro il sud di Israele aveva scatenato il caos e provocato almeno quattro vittime. In risposta, Israele ha lanciato quelli che ha definito i suoi attacchi più “estesi” contro Teheran, colpendo non solo infrastrutture nucleari e missilistiche, ma anche infrastrutture ritenute vitali per la stabilità del governo, come il carcere di Evin.

Alle 01:08 di martedì, Trump ha annunciato ufficialmente l’entrata in vigore del cessate il fuoco sui social media, scrivendo: “Per favore, non violatelo”. Poco dopo, Israele ha confermato di aver accettato la tregua proposta dagli Stati Uniti, dichiarando di aver raggiunto i propri obiettivi militari. In un comunicato ufficiale, lo Stato ebraico ha ringraziato Trump e Washington per il sostegno alla difesa e per il ruolo avuto nella “rimozione della minaccia nucleare iraniana”.

Resta ora da chiedersi se il cessate il fuoco annunciato possa davvero consolidarsi in una tregua duratura. Sebbene le dichiarazioni ufficiali sottolineino una volontà condivisa di de-escalation, la fragile architettura del compromesso raggiunto non sembra sufficiente a garantire la fine delle ostilità. La risposta iraniana sembra aver puntato chiaramente a contenere l’escalation, scegliendo di procedere con tempi e modalità che hanno evitato la possibilità di uno scontro diretto.

Anche da parte statunitense emergono segnali nella stessa direzione: la rapida evacuazione dell’uranio e di altre risorse sensibili dai siti colpiti lascerebbero pensare che l’attacco ai siti nucleari iraniani fosse stato in qualche modo anticipato, se non addirittura coordinato a distanza. All’interno di questo quadro, l’immediato appello del presidente Trump al cessate il fuoco rafforza l’idea che l’obiettivo della sua amministrazione non fosse quello di innescare un conflitto su larga scala, ma di esercitare pressione entro limiti ben definiti.

Dunque, stiamo forse assistendo ad una nuova forma di guerra, in cui l’obiettivo non è la distruzione dell’avversario, ma la comunicazione strategica? Gli eventi recenti suggeriscono l’emergere di un’escalation controllata, in cui le potenze si colpiscono entro limiti precisi, con azioni calibrate volte a ristabilire la deterrenza, affermare la propria credibilità e inviare segnali politici.

Così, l’uso della forza diventa uno strumento negoziale, mirato a influenzare la percezione degli attori coinvolti e a ridefinire temporaneamente gli equilibri di potere, senza oltrepassare la soglia del conflitto aperto su larga scala. Si tratterebbe di una strategia sofisticata, che riduce i costi diretti della guerra tradizionale, ma che resta altamente instabile: il margine di errore è minimo, e un solo passo falso potrebbe far precipitare la situazione oltre il punto di non ritorno.

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

Antonella Bovino
+ post

Antonella Bovino è una studentessa Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna. Si occupa di analisi geopolitiche con focus sull'Africa Subsahariana.