Nelle ultime settimane l’attenzione di analisti e policy makers si è concentrata su una piccola isola di appena 44 km² situata nell’Oceano Indiano, circa 1.600 chilometri a sud dall’India. Si tratta dell’atollo di Diego Garcia, dove recentemente gli Stati Uniti hanno dispiegato un’ingente forza di bombardieri stealth B-2 Spirit, ovvero circa il 30% della flotta totale di bombardieri strategici dell’aeronautica militare americana.

Le immagini satellitari rivelano che almeno tre aerei cargo C-17 e dieci aerei cisterna sono stati schierati su Diego Garcia, ex territorio britannico di elevata rilevanza strategica, già utilizzato più volte in passato come base di partenza per operazioni militari statunitensi in Medio Oriente.

Non si tratta di una semplice esercitazione militare, ma di una mossa carica di significato: un segnale diretto all’Iran a seguito della richiesta statunitense di stipulare un accordo sul programma nucleare entro due mesi. Inoltre, il trasferimento di armamenti a Diego Garcia si inserisce nell’attuale strategia statunitense nel Mar Rosso, dove da mesi Washington è impegnata in operazioni contro le milizie Houthi. Queste ultime, sostenute dall’Iran, hanno intensificato gli attacchi contro navi commerciali e militari occidentali come forma di pressione in risposta alla guerra a Gaza.

Tutto ciò avviene proprio alla vigilia dell’accordo tra Mauritius e Regno Unito rispetto alla questione della sovranità delle isole Chagos, che ha ottenuto anche il lasciapassare dell’amministrazione Trump. All’interno di questo scenario, la ritrovata centralità di Diego Garcia cela un messaggio più ampio sulla capacità degli Stati Uniti di proiettare la propria potenza globale.

L’importanza di chiamarsi Diego Garcia

Ma facciamo un passo indietro, perché l’atollo di Diego Garcia riveste tale importanza strategica? Le isole Chagos, un arcipelago composto da sette atolli e decine di isolotti disabitati, si trovano nel cuore dell’Oceano Indiano, tra l’Africa orientale e l’Indonesia. L’atollo più grande, nonché il più strategico, è quello di Diego Garcia, oggi sede di una delle basi militari statunitensi più segrete e rilevanti al mondo. Formalmente parte del Territorio britannico dell’Oceano Indiano (Biot), l’arcipelago fu separato dalle Mauritius nel 1965 e venduto al Regno Unito, che lo aveva acquisito dalla Francia per 3 milioni di sterline, al solo scopo di insediarvi una base militare. Tra il 1968 e il 1973, l’intera popolazione chagossiana fu forzatamente deportata presso le isole Mauritius e le Seychelles, spesso in condizioni degradanti, con l’obiettivo di “ripulire” Diego Garcia per consegnarlo agli Stati Uniti, che ne affittarono l’uso militare fino al 2016. L’accordo è stato successivamente rinnovato fino al 2036.

Oggi Diego Garcia è l’unica isola abitata dell’arcipelago, ma esclusivamente da personale militare statunitense e britannico. L’accesso è vietato a civili e turisti e per decenni la base è stata oggetto di speculazioni su operazioni segrete e attività di intelligence.

Dal punto di vista legale, la sovranità britannica sulle Chagos è stata spesso contestata. Nel 2019, la Corte Internazionale di Giustizia e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno stabilito che le isole appartengono alle Mauritius e che la separazione coloniale del 1965 è da considerarsi illegittima. Dopo anni di negoziati, lo scorso ottobre, Regno Unito e le Mauritius hanno siglato un accordo sulla titolarità delle isole Chagos e sulla gestione della base militare di Diego Garcia, ottenendo anche l’approvazione dell’amministrazione Trump. Londra ha annunciato la volontà di cedere la sovranità dell’intero arcipelago a Port Louis, ma con una condizione chiara: il controllo britannico della base militare di Diego Garcia resterà immutato e sarà affittata agli Stati Uniti per i prossimi 99 anni.

Quella che a prima vista potrebbe sembrare una restituzione storica si rivela, a uno sguardo più attento, una mossa strategica complessa. L’Oceano Indiano, sempre più centrale nella competizione tra le grandi potenze, è diventato uno snodo critico tra Medio Oriente, Africa orientale e Asia. Diego Garcia non è una semplice isola. È un avamposto militare chiave della proiezione di potenza anglo-americana nella regione. Dalla Guerra Fredda in poi, la base ha svolto un ruolo determinante nei conflitti in Afghanistan e Iraq e nel monitoraggio delle acque internazionali.

Tuttavia, se da un lato il mantenimento della base per altri 99 anni garantisce una continuità operativa da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna, dall’altro il trasferimento formale della sovranità alle Mauritius introduce un’incognita geopolitica non trascurabile. Infatti, questa concessione potrebbe indebolire la percezione del dominio occidentale nella regione, aprendo la strada a nuove pressioni internazionali, specialmente se Port Louis dovesse avvicinarsi a potenze rivali come Cina o India. L’amministrazione statunitense condivide questi timori, soprattutto in un momento storico in cui Pechino sta rafforzando la propria postura militare attraverso l’acquisizione di basi a Gibuti e porti in Pakistan e Sri Lanka.

Il braccio di ferro Washington Teheran

Inoltre, nel marzo 2025, la tensione tra Stati Uniti e Iran ha subito un’escalation quando Donald Trump ha inviato una lettera direttamente alla Guida Suprema iraniana, chiedendo un nuovo accordo sul nucleare entro due mesi e minacciando apertamente un’azione militare in caso contrario. Teheran ha risposto con un secco rifiuto. Da allora, lo scenario è diventato ancora più instabile: l’Iran ha fatto sapere che, qualora la retorica aggressiva americana dovesse intensificarsi fino a diventare una minaccia reale, non esiterebbe a colpire preventivamente le sue basi nella regione, tra cui Diego Garcia.

Intanto, da parte americana, sono stati schierati, sei bombardieri B-2, insieme ad altri sei velivoli di grandi dimensioni, tra cui cisterne ed aerei cargo, presso l’aeroporto dell’atollo. A Washington si insiste sul fatto che si tratti di una mossa calcolata, una strategia per tenere aperta la porta al negoziato mantenendo però una minaccia credibile. Tattica trumpiana che abbiamo visto in atto anche in occasione della guerra dei dazi o del conflitto in Ucraina.

Dal punto di vista di Teheran, le minacce di Trump non sono una novità. Il presidente statunitense ha più volte alternato toni bellicosi a improvvisi slanci negoziali. Eppure, l’Iran non può permettersi di ignorare questa possibilità. La leadership militare del Paese, consapevole di quanto possa essere breve il passo tra deterrenza e attacco reale, ha avviato discussioni riservate sull’eventualità di una risposta preventiva. Se il regime dovesse interpretare le mosse statunitensi come preludio di un’aggressione, potrebbe scegliere di agire per primo, aprendo la strada a un’escalation rapida e pericolosa.

Infatti, schierare sei B-2 a Diego Garcia, ovvero un terzo della flotta strategica stealth americana, rappresenta per Teheran il segnale tangibile che un’azione militare è realmente presa in considerazione, anche se come ultima alternativa. I bombardieri B-2 rappresentano una minaccia molto seria per l’Iran, soprattutto per il suo programma nucleare, che è al centro delle attuali tensioni. Questi aerei sono pensati per entrare in profondità nel territorio nemico e colpire con precisione strutture protette e sotterranee. Al momento, il B-2 è l’unico velivolo americano in grado di trasportare le enormi bombe bunker buster Gbu-57/B, pensate proprio per distruggere obiettivi nascosti sottoterra, come quelli legati al programma nucleare e missilistico iraniano.

In realtà, fino a poche settimane fa, l’Iran non occupava una posizione prioritaria nell’agenda strategica di Washington, concentrata, invece, sul contenimento della Cina e sull’impasse della guerra in Ucraina. Il cambio di marcia improvviso potrebbe segnalare il peso crescente delle pressioni israeliane, in un momento che Tel Aviv potrebbe considerare strategico per colpire la Repubblica Islamica. Infatti, l’escalation con l’Iran avviene in una fase in cui il Paese ha subito una serie di colpi significativi al suo apparato regionale. Tra questi: il progressivo ridimensionamento della sua presenza militare in Siria con la caduta del governo di al-Assad, l’eliminazione mirata di figure chiave appartenenti a milizie alleate come Hezbollah e la campagna contro gli Houthi in Yemen.

Non sarebbe d’altronde a prima volta che gli interessi statunitensi si allineano a quelli israeliani nella regione Medio orientale, soprattutto se si tratta di ridimensionare l’influenza iraniana. Negli ultimi mesi, infatti, gli Stati Uniti e Israele hanno intensificato le esercitazioni militari nella regione, con bombardieri strategici e aerei da combattimento, inclusi diversi voli di B-52 nei pressi dell’Iran come chiaro messaggio di forza. Dall’altra parte, Teheran ha risposto con fermezza, rafforzando la propria presenza nel Golfo Persico attraverso manovre navali congiunte con Russia e Cina.

Il rafforzamento militare statunitense a Diego Garcia rappresenta non solo una chiara dimostrazione di forza, ma anche un tentativo di costringere l’Iran a sedersi al tavolo delle trattative. Per l’Iran, questa provocazione non può essere ignorata, anche se risulta difficile valutare la reale intensità del rischio. La possibilità che Teheran consideri azioni preventive in risposta alle minacce americane cresce, e il rischio di un’escalation è reale. Un altro fattore determinante è il crescente allineamento degli Stati Uniti con gli interessi israeliani, che vedono in questo momento una finestra per colpire l’Iran. Sebbene la diplomazia resti un’opzione, la combinazione di politiche di rischio calcolato e dinamiche geopolitiche regionali potrebbe trascinare entrambe le potenze in un conflitto che, per ora, nessuno dei due sembra desiderare.

Foto: U.S. Air Force PACAFPA by Tech. Sgt. Heather Salazar 

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

Antonella Bovino
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Antonella Bovino è una studentessa Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna. Si occupa di analisi geopolitiche con focus sull'Africa Subsahariana.