di Enrico Petrucci

Al parlamento irlandese è in dirittura d’arrivo la nuova legge contro l’hate speech, i cosiddetti discorsi d’odio. Una legge che quando approvata si rivelerà una delle più regressive tra quelle in vigore nelle democrazie occidentali. Regressiva perché il reato dell’hate speech ribalterebbe quella che è la “presunzione d’innocenza” con la “presunzione di reato”: ovvero si potrebbe essere indagati per il solo sospetto di hate speech e condannati fino a due anni per il solo possesso di documenti qualificabili come potenziale incitamento all’odio, anche qualora non si sia commesso alcun reato effettivo. Basterebbe insomma la sola combinazione del sospetto e del materiale detenuto per ricevere una condanna. L’adagio attribuito a Richelieu, “datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare”, combinato con una prassi in grado di oscurare le gesta della STASI.

Ai fatti nel dibattimento irlandese si inizia a parlare di legge  per l’introduzione degli psicoreati, il thoughtcrime orwelliano come fattispecie giuridica. La legge dopo diversi passaggi è stata approvata alla camera bassa, Dáil Éireann, con larga maggioranza e attende solo l’approvazione al senato, Seanad Éireann, per essere promulgata.

La nuova legge, denominata Criminal Justice (Incitement to Violence or Hatred and Hate Offences) Act, vorrebbe aggiornare la precedente legge del 1989, Legge sul divieto di incitamento all’odio, Prohibition of Incitement to Hatred Act, 1989, introducendo nuove fattispecie e maggiori… tutele. Sulla carta tutto positivo, così racconta la legge il sito istituzionale del Citizens Informations Board, che così descrive il percorso legislativo delle nuove norme:

– Creare nuove leggi per affrontare i crimini d’odio

– Ampliare le caratteristiche protette per includere il genere (comprese l’identità e l’espressione di genere) e la disabilità.

– Rendere reato la negazione o la banalizzazione del genocidio.

E si specifica, utilizzando la definizione in uso alla Garda, la polizia irlandese:

Un crimine d’odio è un reato che la vittima, o qualsiasi altra persona, percepisce come motivato da pregiudizi basati su età, disabilità, razza, colore, nazionalità, etnia, religione, orientamento sessuale o genere. Attualmente l’Irlanda non dispone di leggi specifiche sui crimini d’odio.

Orwell è diventato un manuale d’istruzioni

Ma di fatto la norma così come presentata non si applica solo come aggravante di un eventuale reato, come scritto sul sito Citizens Informations Board. Bensì, come appare evidente da una lettura della legge, la fattispecie si applicherebbe a qualsiasi ipotesi di hate speech. Tanto che non solo l’area libertaria, ma anche la sinistra radicale si è scatenata contro la legge. Ad esempio Paul Murphy, eletto con la coalizione di sinistra People Before Profit – Solidarity, non ha esitato a parlare di crimini del pensiero, ossia gli “psicoreati” secondo il buon vecchio George Orwell (Orwell che, è bene ricordare, qualche mese fa era stato inserito tra gli autori campanello d’allarme nelle indagini sulle possibili radicalizzazioni da suprematismo bianco). In un suo intervento nel dibattito parlamentare, Murphy ha ribadito:

Un aspetto che vogliamo evitare, e che affronteremo più avanti in una discussione più approfondita sull’emendamento n. 6, è la creazione di crimini di pensiero [sic: “thought crimes”]. Vogliamo che ci siano precise conseguenze negative come risultato del discorso d’odio di cui stiamo parlando. Questo è lo scopo di questi emendamenti che riguardano i crimini d’odio.

Il parlamentare Murphy non cita Orwell a sproposito perché in uno degli articoli si parla di sequestro preventivo in assenza di crimine. Ovvero basta il sospetto a far partire la denuncia. Una situazione ancor più estrema di quella vissuta in Norvegia con i casi di femministe radicali denunciate per un tweet.

Infatti all’Articolo 10 (si fa riferimento al testo approvato alla camera bassa) si legge al punto (a) del Comma 1:

[…] prepara o possiede materiale che possa incitare alla violenza o all’odio contro una persona o un gruppo di persone a causa delle loro caratteristiche protette o di una qualsiasi di tali caratteristiche, al fine di comunicarlo al pubblico o a una parte del pubblico, da parte propria o di un’altra persona […]

E al comma 3: 

In qualsiasi procedimento per un reato ai sensi della presente sezione, qualora venga dimostrato che l’imputato era in possesso di materiale di cui al comma (1) ed è ragionevole supporre che il materiale non fosse destinato all’uso personale della persona, si presume, fino a prova contraria, che l’imputato sia stato in possesso di materiale in violazione del comma (1).

Prevedendo di fatto una presunzione di colpevolezza con condanne fino a due anni là dove non venga dimostrato un “uso personale”.

Requiem per lo Stato di Diritto

E la libertà di espressione che fine fa? Riassunta brevemente nel successivo Articolo 11 in cui appare evidente l’assenza di ogni garantismo.

Protezione della libertà di espressione

  1. Ai fini della presente Parte, non si considera materiale o comportamento che inciti alla violenza o all’odio contro una persona o un gruppo di persone a causa delle loro caratteristiche protette o di una qualsiasi di tali caratteristiche solo sulla base del fatto che quel materiale o comportamento include o comporta la discussione o la critica di questioni relative a una caratteristica protetta.

In un’ipotetica applicazione di questa legge, secondo le fattispecie di queste nuove forme di reato, è sufficiente avere tra i propri documenti materiale che pone il sesso biologico come fattuale e preminente di fronte all’autopercepita identità di genere per essere a rischio, nel momento in cui sostenere la parte del sesso biologico contro le fole gender potrebbe essere considerata non “discussione o critica” ma odio tout court.

È bene notare come non ci siano solo aspetti relativi alla definizione di sesso biologico in ballo. La cronaca che arriva dagli Stati Uniti è ricca di esempi di quelle che potrebbero diventare nuove fattispecie di reato, e giocoforza esempi di incitamento all’odio. L’Università del Colorado ha  messo nero su bianco che il misgendering e l’incorretto utilizzo dei pronomi (e ricordiamo che i “pronomi” autoassegnatisi da chi si percepisce come “diverso” dalla propria realtà materiale, nel mondo anglosassone sono almeno una ventina, in crescita) può essere classificabile come un atto di violenza. Di questo passo non si rischierà solo il posto di lavoro per misgendering, ma di fronte a normative come quella irlandese si scadrebbe facilmente nel penale. Scrive l’Università del Colorado nelle sue rinnovate linee guida per l’uso dei pronomi:

Non bisogna mai dare per scontato il genere di qualcuno e vivere una vita in cui le persone assumono naturalmente i pronomi corretti è un privilegio che non tutti sperimentano. Scegliere di ignorare o non rispettare i pronomi di qualcuno non è solo un atto di oppressione, ma può anche essere considerato un atto di violenza.

Insomma, dare del “lui” a un maschio che si crede femmina è “violenza”.

Mentre in merito al dibattito sul boicottaggio dei marchi Bud, birra, e Target, abbigliamento, in polemica per le loro scelte di marketing a tema gender, il professore Justin Wolfers, cattedra di Public Policy ed Economics all’università del Michigan ha dichiarato in una tavola rotonda sul canale televisivo MSNBC che si tratta “letteralmente di terrorismo”:

La Target cede a questo, quindi dice che nel momento in cui si minacciano i dipendenti di una società, anche molto grande, si può controllare la sua politica. Questo è terrorismo economico, letteralmente terrorismo, creare paura tra i lavoratori e costringere le aziende a vendere le cose che si vogliono e non quelle che non si vogliono.

Nel calderone dell’hate speech potrebbero ricadere tutte queste fattispecie. Sesso biologico, pronomi, critica alle pratiche commerciali del pride month e al marketing ossessivo anche nei confronti di bambini e ragazzi.

Una legge autoreferenziale

L’elemento dello psicoreato, e delle “sei righe del più onesto degli uomini” secondo Richelieu, è acuito anche da un altro dettaglio, quello delle definizioni circolari o autoreferenziali a cui ricorre la legge per le nuove fattispecie di crimini di discorsi d’odio. Attenzione perché si tratta di una critica analoga a quella del dibattito italiano intorno al DDL Zan relativamente a “identità di genere”, “genere” e ai potenziali “atti di discriminazione” contro di essi.

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A sollevare il problema sulla nuova legge irlandese e le sue “definizioni”, è Gerard Casey, professore emerito di filosofia all’University College di Dublino. Un cattolico libertario che nel 2021 ha dato alle stampe un libro che prende di petto le tematiche woke e genderiste citando la “battaglia contro la realtà”, del maschio che vorrebbe diventare madre, “struggle against realityleggendaria gag dal film dei Monthy Python Brian di Nazareth, fin da titolo: Hidden Agender: Transgenderism’s Struggle against Reality.

Un conto, come fa notare Casey è il crimine d’odio come aggravante di un reato (fattispecie già presente nell’ordinamento) e un conto la definizione di “discorso d’odio” in assenza anche solo dell’incitamento. Perché come abbiamo visto nella legge in corso di approvazione è sufficiente il possesso e l’impossibilità di dimostrarne l’uso personale per essere condannati.

Nel dibattito irlandese si insiste che a essere probante dell’hate speech è la percezione della vittima. Ma un conto è la percezione della vittima in un contesto in cui si è già palesato un reato. In assenza di reato impossibile dare una definizione oggettiva. Soprattutto quando ovunque nel mondo la giurisprudenza ha già dato brillanti esempi delle mostruosità a cui si può arrivare in presenza di estrema soggettività sulle questioni di transfobia vera o presunta. Come nel caso delle cause temerarie intentate dall’“attivista” canadese Jessica Yaniv, prima idolatrato dall’attivismo trans e poi scaricato perché considerato controproducente alla causa dopo aver inanellato una serie di cause contro vari saloni di bellezza per sole donne che si rifiutavano di effettuarle una depilazione integrale delle parti intime (Yaniv ha ancora tutti gli organi sessuali maschili).

E per tornare al dibattito giurisprudenziale italiano, basti pensare tutta la questione intorno alla questione del reato di plagio. Di fatto le nuove normative intorno all’hate speech si pongono su una base ancor più fumosa ed evanescente del plagio.

Non è solo il reato di hate speech a non poter avere una definizione chiara. Ma anche i soggetti che dovrebbero essere tutelati dal reato. La questione è ovviamente intorno alla definizione di “genere” e “transgender” (a differenza del DDL Zan in cui venivano identificate le fattispecie di “genere” ed “identità di genere”, la legge irlandese si limita a “genere”, ma intorno a “genere” e “transgender” inevitabile la tautologia). Scrive Casey in un intervento del novembre 2022:

La sezione 3(2)(d) del disegno di legge recita: Per “genere” si intende il genere di una persona o il genere che una persona esprime come genere preferito o con il quale la persona si identifica e comprende il transgender e un genere diverso da quello maschile e femminile”. Se questa sezione intende dare una definizione di genere, fallisce palesemente, perché nessun tentativo coerente di definire un termine “X” può includere X nella definizione proposta. Ma se non ha lo scopo di definire il genere, questo ci lascia con un altro problema, poiché il termine “genere” non sembra essere definito in nessun altro punto del disegno di legge. Considerazioni simili valgono per il termine “odio”! Ci viene detto che “odio” significa odio contro una persona o un gruppo di persone nello Stato o altrove a causa delle loro caratteristiche protette o di una qualsiasi di tali caratteristiche. Se questa è una definizione, fallisce completamente. Ma se non lo è, dove si trova una definizione di odio nel disegno di legge?

Guardiamo di nuovo il § 3(2)(d). Questo sembra individuare tre elementi: (1) il genere di una persona; (2) il genere preferito espresso da una persona; (3) il genere identificato di una persona. In tutti e tre i casi, sembra che ci venga detto (la mancanza di punteggiatura non aiuta) che il genere può includere il transgender o un genere diverso da quello maschile o femminile.

Non ci viene detto che cos’è il genere, che cos’è il transgender, che cosa può essere un genere diverso da quello maschile o femminile o quanti ce ne possono essere, e in che modo le tre voci di genere elencate differiscono o si relazionano l’una con l’altra. Ad esempio, una persona può avere tutti e tre i tipi di genere contemporaneamente?

Anche perché le stesse definizioni di genere e sesso, come spesso fatto notare anche dalle critiche intorno al DDL Zan possono essere basate sugli stessi “stereotipi” che i legislatori apparentemente vorrebbero decostruire, o diventare tra loro intercambiabili (ma se sono intercambiabili perché definirle come proprietà diverse?). Scrive sempre Casey su Twitter il 2 giugno scorso:

Se il genere è il senso soggettivo della propria mascolinità o femminilità, è un mistero perché debba interessare a chiunque, tranne che alla persona interessata e ai suoi familiari e amici, e ancor meno perché debba essere una caratteristica meritevole di riconoscimento giuridico. Esiste una massima giuridica secondo la quale la legge non si occupa di inezie, che si applica perfettamente al genere inteso in questo modo.

Attualmente, la sezione centrale della legge irlandese sul riconoscimento di genere (s. 18 (1)) afferma che: “Quando viene rilasciato un certificato di riconoscimento di genere a una persona, il suo genere diventa a tutti gli effetti il genere preferito, in modo che se il genere preferito è quello maschile il sesso della persona diventa quello di un uomo, e se è quello femminile il sesso della persona diventa quello di una donna”. Si noti il non troppo sottile ma ancora misterioso passaggio dal genere al sesso!

Non si tratta di “dettagli” soprattutto in un contesto come quello irlandese dove al netto della “premessa che non esiste una legislazione contro i crimini d’odio” lo scorso anno ha visto la vicenda di Enoch Burke: professore che era stato sospeso dalla scuola per essersi rifiutato di usare il pronome al plurale nei confronti di uno studente definitosi come “non binario”. Burke si era appellato alla sua fede cristiana e come obiettore di coscienza aveva rifiutato la sospensione, recandosi regolarmente a scuola. Azione che gli era costata 108 giorni di prigione.

Lo Stato di Diritto muore fra scroscianti applausi

Appare evidente come in queste narrazioni in cui le parole hanno perso significato, la fattispecie di una legge come quella irlandese dove solo il sospetto autorizza a sequestri, e la semplice presenza di materiale classificabile come hate speech dal giudice di turno può portare a condanne, rischia di diventare una mostruosità giuridica in grado di zittire qualunque forma di dissenso, su qualunque ambito.

Questo è l’impavido mondo nuovo che stanno apparecchiando i legislatori irlandesi a larga maggioranza. Il testo è stato approvato con 110 voti a favore contro 14 contrari in maniera assolutamente trasversale. Hanno votato a favore: il Sinn Fein, i Laburisti, i Verdi, il Fine Gael (cristiano democratici), e il Fianna Fail (conservatori). Il passaggio alla camera alta, Seanad Éireann, nonostante le molte perplessità rilevate è ritenuto dai commentatori politici una pura formalità. C’è quindi la concreta possibilità che vedremo presto in azione gli effetti, o più probabilmente, l’approvazione della legge porterà a una cappa di autocensura nei confronti delle posizioni critiche all’approccio ideologico a temi come genere e identità di genere. La STASI insegna.

Al netto di tutto, il caso irlandese insegna come sia fondamentale vigilare nei confronti di queste nuove forme di “supposta tutela”, in realtà quasi sempre strumenti per cappe ideologiche e censorie.

 

 

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Saggista e divulgatore, tra le sue pubblicazioni Alessandro Blasetti. Il padre dimenticato del cinema italiano (Idrovolante, 2023). E con Emanuele Mastrangelo Wikipedia. L’Enciclopedia libera e l’egemonia dell’in­formazione (Bietti, 2013) e Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia (Eclettica, 2020).