di Giovanni Giacalone

L’aggressione a colpi di coltello perpetrata nella mattinata di giovedì 8 giugno in un parco di Annecy da un profugo siriano che ha provocato il ferimento di 4 bambini e un adulto ha riacceso il dibattito sul terrorismo. L’assalitore, identificato come Abdelmasih Hanoun (31 anni) era inizialmente stato indicato come cristiano anche in base a una presunta e controversa esclamazione durante il fatto (“in the name of Jesus Christ”). Il 12 giugno, il sito JihadWatch ha però reso noto che il vero nome dell’attentatore sarebbe Selwan Majid, musulmano, arrivato in Svezia dalla Turchia, con passaporto falso spacciandosi per cristiano. Le verifiche sono ancora in corso. Quattro giorni prima della carneficina l’assalitore aveva appreso che la Francia aveva rigettato la sua richiesta di asilo; che sia stato questo il movente della sua furia?

Restando in Francia ma due giorni dopo, stavolta a Lille, un immigrato algerino si è introdotto in una scuola materna ed ha poi cercato di strangolare un agente di polizia. Il fatto ha trovato poco spazio sui media, ma l’ombra inquietante di un altro attacco nei confronti di bambini, esattamente come ad Annecy, è innegabile.

In Inghilterra,  a Nottingham, il 14 giugno un assalitore trentunenne indicato dalle autorità come proveniente dall’Africa Occidentale ha accoltellato a morte tre persone (due studenti universitari e un bidello) e ha poi cercato di introdursi in un ostello per senza tetto prima di venire arrestato.

In Italia le cose non vanno meglio; giovedì sera 8 giugno a Milano infatti, dei liceali che stavano festeggiando la fine dell’anno scolastico in via Benedetto Marcello sono stati picchiati, anche con spranghe, da una ventina di nordafricani giunti sul posto con il chiaro intento di aggredirli.

Come non ricordare poi il dirottamento da parte di un immigrato senegalese di un pullman con 51 bambini nel marzo del 2019? In quel caso solo per miracolo e grazie alla prontezza delle forze dell’ordine si evitò la strage, visto che il personaggio in questione incendiò il mezzo.

Tutti questi episodi hanno un comun denominatore: l’odio degli aggressori nei confronti della società ospitante. Attenzione, perché l’odio non ha colori, ma purtroppo la risposta dei media cambia a seconda di esecutori e vittime. Pensiamo se tutti questi episodi fossero infatti avvenuti all’inverso, con assalitori bianchi e vittime nordafricane. Avremmo assistito a continue accuse nei confronti del suprematismo bianco, europeo, il terrorismo, il razzismo e via dicendo. Nei casi citati precedentemente emerge una evidente ostilità nei confronti della società europea, arrivando addirittura a colpire deliberatamente dei bambini, la cosa più vile al mondo, ma nessuno ha il coraggio di dire le cose come stanno: sono attentati, disgustosi crimini di odio, vendette, azioni di terrore.

Gli esperti di terrorismo Gus Martin e Fynwin Prager indicano come “hate crime” quei reati motivati da odio o risentimento nei confronti di una determinata categoria (etnia, nazionalità, orientamento sessuale, razza ecc…) e che sono privi di agenda politica. Essi aggiungono però che in molti casi è difficile distinguere tra “hate crime” e attentato terroristico in quanto gli autori di reati di odio possono agire come terroristi, paventando una qualche motivazione ideologica [vedi Martin, Prager, “Terrorism – An International Perspective”, (Sage, 2019). Pp. 24-25]. In aggiunta, l’emergere dei cosiddetti attentatori solitari (che si attivano per conto proprio ma senza necessariamente essere privi di connessioni con altri elementi) hanno ulteriormente complicato la questione, visto che in nessun caso è più necessaria una struttura organizzativa tradizionale alle spalle dell’autore.

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Seguendo però la definizione di terrorismo del prof. Marco Lombardi, esperto di terrorismo e direttore di Itstime all’Università Cattolica di Milano e cioè: “Un atto di terrorismo è tale per gli effetti che produce, non per le ragioni che lo motivano”, allora potremmo anche interpretare gli episodi citati inizialmente come azioni terroristiche, perché di fatto generano terrore tra la popolazione. Si ha paura a mandare i figli a scuola (proprio come succedeva in Israele negli anni ’90), si ha paura a camminare in strada, perché c’è qualcuno che odia e che è pronto a colpire. A questo punto le definizioni diventano secondarie, perché che sia odio o terrorismo, il risultato è il medesimo, terrore, violenza, morte e ciò non può essere tollerato, a prescindere da chi sia a colpire.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Laureato in Sociologia (Università di Bologna), Master in “Islamic Studies” (Trinity Saint David University of Wales), specializzazione in “Terrorism and Counter-Terrorism” (International Counter-Terrorism Institute di Herzliya, Israele). È analista senior per il britannico Islamic Theology of Counter Terrorism-ITCT, l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (Università Cattolica di Milano) e il Kedisa-Center for International Strategic Analysis. Docente in ambito sicurezza per security manager, forze dell’ordine e corsi post-laurea, è stato coordinatore per l’Italia del progetto europeo Globsec “From criminals to terrorists and back” ed è co-fondatore di Sec-Ter- Security and Terrorism Observation and Analysis Group.