di Marco Malaguti

In un recente articolo, l’editorialista del “Corriere della Sera” Federico Rampini mette alla prova la nota intelligenza artificiale (IA) ChatGPT, affidandole, a titolo sperimentale, la preparazione di un saggio giornalistico. L’esperimento riesce (Rampini giudica l’operato della IA come “soddisfacente”) e il giornalista passa poi ad esaminare, citando alcuni accademici statunitensi, le ricadute in campo sociale, in particolare in quello dell’istruzione, non solo di ChatGPT ma dell’intera transizione digitale della quale l’algoritmo del suddetto chatbot rappresenta solamente la punta dell’iceberg.

Transizione digitale. Verso cosa?

Durante il periodo pandemico, prima che le autorità si arrendessero all’evidenza del fatto che la didattica a distanza (DAD) si era rivelata un disastro su tutti i fronti, a lungo abbiamo sentito l’orchestra massmediatica rimarcare il fatto che la decantata DAD fosse il futuro dell’istruzione. Che la transizione digitale fosse una delle numerose innovazioni rispetto alle quali “non c’è alternativa” (mantra piuttosto originale in una società che si pretende democratica) lo si poteva arguire già dal fatto che tanto il governo Conte II quanto il governo Draghi avessero sentito il bisogno di creare un ministero ad hoc, poi declassato dal governo Meloni a semplice dipartimento del Consiglio dei Ministri.

Ma se la transizione digitale potrà essere tenuta fuori dalle scuole ben più arduo sarà il tenerla fuori dalle case degli studenti. Se ChatGPT è perfettamente in grado di creare saggi giornalistici che soddisfano un professionista come Rampini c’è da immaginare quanto difficile sia, tramite un chatbot di tal fatta, redigere un semplice tema o svolgere i compiti a casa. Piove, chiaramente, sul bagnato: il chatbot si esprime, già di suo, enormemente meglio della gran parte degli studenti frequentanti le scuole primarie e secondarie e, cosa non da poco, produce ogni volta contenuti diversi, rendendo virtualmente impossibile, per l’insegnante, verificare se un elaborato è stato prodotto o meno tramite intelligenza artificiale. Ça va sans dire, ChatGPT è anche enormemente più colto della stragrande maggioranza degli insegnanti e, anche se incappa frequentemente in errori che, per una persona istruita, risultano assai grossolani, è molto difficile che un giovane studente si insospettisca.

Abbiamo ancora bisogno di insegnanti?

Già oggi molti insegnanti, pressati da loro alunni “troppo curiosi”, rispondono in maniera errata o comunque a casaccio ai quesiti a loro posti: se ci si fida a scatola chiusa degli insegnanti in carne ed ossa figurarsi degli algoritmi, ricoperti come sono della cappa d’ermellino di una presunta infallibilità scientifica.

Si può notare, en passant, che se si considera l’istruzione come una mera pratica di stivamento di nozioni, essa potrebbe già virtualmente fare a meno degli insegnanti. Esistono già numerose piattaforme che permettono di frequentare corsi specialistici on demand sotto forma di video e presentazioni, così come, in caso di dubbi, si può sempre interpellare un chatbot come ChatGPT ed averne risposte “soddisfacenti”. Non è affatto detto che il futuro tracciato per l’istruzione, perlomeno quella pubblica, non sia questo.

L’intelligenza artificiale, naturalmente, non sarà il toccasana che ci viene dipinto, anche perché, per cominciare, gli attuali chatbot rispondono comunque degli orientamenti ideologici dei loro programmatori e finanziatori e non certo a criteri di neutrale oggettività; ma la questione rimane più profonda. Non si tratta, almeno in questa sede, di deplorare, in compagnia di Byung-chul Han, l’arrogante espansionismo del mondo delle “non cose”, né si tratta di operare come i critici di chi teme la sparizione della dimensione dell’esistenza autentica (come invece Gilles Lipovetsky). La questione principale rimane quale ruolo abbiano l’istruzione canonica e soprattutto l’insegnante, in un mondo che possiede già, almeno a livello potenziale, le capacità di sostituire entrambi.

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Che scuola vogliamo?

La riflessione coinvolge inevitabilmente, ed in maniera inaggirabile, il come un sistema-Paese pensi le sue scuole: se cioè come luoghi destinati all’accumulo di nozioni oppure se come palestre sociali destinate alla formazione dell’uomo (e della donna) nel suo complesso. Se infatti il computer costituisce un concorrente invincibile nella capacità di immagazzinare e squadernare dati, l’uomo mantiene un vantaggio enorme, e soprattutto inattaccabile, in ciò che lo rende unico: l’umanità, appunto. Nessuna intelligenza artificiale sarà mai in grado di insegnare come si sta al mondo. Né, per esempio, come si pensa. Non sorprende, ad esempio, che una delle prime affermazioni in cui ci si imbatte “conversando” con ChatGPT è quella che vede il bot confessare di non essere capace di “pensare”, concordando con la famosa massima heideggeriana per cui “la scienza non pensa”.

Istruzione per le persone, non viceversa

L’istruzione ha quindi un futuro luminoso se si comincerà sempre più a pensarla come una scuola di apprendimento del pensiero e dell’interazione e non soltanto di mero immagazzinamento di dati. La prospettiva, peraltro, non intacca assolutamente la valenza della scuola, cara agli ambienti più liberali, che la inquadrano come una sorta di anticamera propedeutica al mondo del lavoro. Le mansioni più tecniche, quelle cioè che meno avranno bisogno di un lato interattivo dei rapporti interpersonali, sono già le più vulnerabili alla concorrenza delle AI; viceversa, ogni mansione che implichi un’efficace capacità di comunicare e soprattutto di pensare resta, naturaliter, insostituibile dalle macchine.

Anche qui la tanto vituperata istruzione umanistica e l’odiatissima filosofia possono fare moltissimo, tanto per lo sviluppo integrale della persona quanto per quello economico di un sistema-Paese. Il tutto, beninteso, a patto che ad un’istruzione e ad un sistema scolastico si chiedano queste cose. Se, al contrario, ci si aspettasse una scientifica massificazione, una deliberata opera di destrutturazione preventiva del pensiero, l’inquinamento dei processi noetici, il discioglimento delle nozioni nel mare magnum delle narrazioni, allora è certo che nulla potrebbe far meglio dell’attuale modello di compresenza tra nuove tecnologie, programmi scolastici raffazzonati ed impreparazione degli insegnanti.

Come già detto anche in questa sede, la scienza è essenzialmente problem solving: si tratta solo di comprendere quale problema intendiamo risolvere. Il che implica che presto o tardi dovremo decidere, a monte, se l’ignoranza, nel mondo di oggi, costituisca ancora un problema.

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.