Con più di un milione e mezzo di casi positivi e circa 90.000 deceduti ufficiali, il coronavirus si attesta come la minaccia globale più grave dalla fine del secondo conflitto mondiale. Le reazioni delle nazioni di fronte all’epidemia sono state varie, più o meno efficienti e con prezzi da pagare più o meno alti. Dopo circa due mesi dalle prime misure è possibile iniziare ad interrogarsi su quali metodi – e perché – si siano rivelati i migliori per gestire l’epidemia. Premessa necessaria è tuttavia quella di considerare che i paradigmi socio-culturali delle nazioni sono estremamente differenti e per questo i modelli utilizzati in un paese non saranno mai perfettamente replicabili in un altro.

Tanto si è detto sulle misure strettissime adottate in Cina, che hanno portato a limitare il contagio alla sola provincia dell’Hubei, anche se permangono forti incertezze sulla reale conta di infetti e deceduti. Reazioni muscolari, di tipo diverso, sono state quelle dei paesi asiatici come Corea del Sud, Singapore e Taiwan, già messi alla prova negli anni precedenti dalle epidemie di Sars e Mers. Il governo di Singapore ha utilizzato le forze anticrimine per interrogare singolarmente i contagiati, arrivando a tracciare anche le carte di credito, per stilare una lista dei luoghi dove erano avvenuti i contagi. Taiwan ha utilizzato un sistema di sorveglianza della rete telefonica per impedire ai cittadini di allontanarsi da casa. Le misure più imponenti tuttavia sono quelle del governo di Seoul.

Un pacchetto di leggi, varato dopo l’epidemia di Mers del 2015 per le minacce da epidemia, era stato testato con buoni risultati contro il virus zika nel 2016. Il sistema prevede l’utilizzo di stazioni mobili per i test, che possono verificare la presenza del virus a domicilio con la minima esposizione da parte del personale sanitario. Il numero dei tamponi è impressionante, circa un milione per 10.000 contagiati, cifra superata in valore assoluto solo da Germania, Cina e Stati Uniti. Ma è stato l’utilizzo di nuove tecnologie a svolgere un ruolo fondamentale. Con l’utilizzo di un’app chiama Corona100m si poteva essere avvertiti di eventuale vicinanza a luoghi o persone a rischio. Ovviamente, il rispetto della privacy non è stato al centro dell’agenda di Seoul, che ha utilizzato proprio come Pechino tecnologia GPS per tracciare movimenti e transazioni di cittadini affetti da Covid. Al netto di alcuni focolai che si continuano a riaccendere, la Corea del Sud è passata dall’essere il primo paese per contagi fuori dalla Cina al sedicesimo posto, riducendo le vittime a poche centinaia.

Anche le misure prese in Russia sembrano aver pagato, nonostante le agenzie italiane lamentino l’impossibilità di verificare i numeri. La Federazione ha dichiarato circa 10.000 contagiati e 76 morti, un numero estremamente inferiore rispetto agli Stati occidentali, nonostante condivida con la Cina uno dei confini più lunghi del mondo. Certamente facilitato dalla bassissima densità demografica, il Cremlino ha iniziato a prendere provvedimenti con largo anticipo rispetto agli altri paesi. I voli con la Cina sono stati soppressi quasi subito, i Russi presenti rimpatriati tramite voli controllati e sottoposti a quarantena in strutture isolate. Questo ha permesso di limitare lo spill over delle prime settimane. Le limitazioni alle uscite e il coprifuoco, adottate poco dopo rispetto all’Occidente, sono state più severe per quel che riguarda le pene. In generale l’approccio russo non si distanzia particolarmente da quello occidentale e i risultati positivi sono da cercarsi probabilmente nella rapidità e nella certezza dell’azione.

L’impatto più grande è stato quello sostenuto dai paesi occidentali. Le misure sono state ovunque prese in colpevole ritardo. Il caso italiano non è servito ad avvertire in tempo le cancellerie dei paesi europei, che, al fronte di blocchi di confini e voli abbastanza celeri, hanno tentato di tergiversare il più possibile sul lockdown delle attività. La stessa Italia prima della tragedia lombarda si è più volte prodigata tramite figure istituzionali come il presidente di regione Zingaretti a sottolineare come il virus altro non fosse che banale malanno stagionale, avvertendo sui pericoli dell’allarmismo e del razzismo. In maniera ancor più sconsiderata, la Spagna si è rifiutata di annullare le manifestazioni per la giornata della donna dell’8 marzo, che hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Il prezzo della tutela della libertà individuale – anche se ci sarebbe da discernere tra buon senso e libertà – è stato quello di decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di contagiati, con influssi negativi sull’economia che toccheranno milioni di persone. Gli ultimi paesi restii ad abbandonare la sconsiderata tattica dell’immunità di gregge, Svezia ed Olanda, probabilmente adotteranno le misure restrittive solo durante questa settimana.

A versare nella situazione peggiore, sono certamente gli Stati Uniti, che pagano l’alta densità di popolazione dei centri urbani e la reazione differenziata degli Stati federali. La linea della gran parte degli Stati americani è quella di vietare assembramenti e aperture di attività di ritrovo, ma l’ordine di restare a casa è arrivato solo nei casi dell’Ohio, Delaware, Louisiana, California, Illinois, Connecticut, New Jersey e New York (che da solo conta circa 200.000 contagiati).

È da sottolineare come diverse forme di governo abbiano a disposizione diversi strumenti. Regimi di carattere autoritario, come la Cina, si trovano particolarmente svantaggiati nelle prime fasi di un’emergenza in quanto l’ostacolo alla diffusione delle informazioni è causa di ritardo nel dispiegamento delle misure, complice la “sindrome da accerchiamento” che impone la conservazione dell’immagine perfetta all’estero. Se la Cina fosse stata una democrazia, probabilmente il virus sarebbe stato arginato meglio dai paesi esteri. Tuttavia, se mai ce ne fosse stato bisogno, il Covid ha definitivamente smentito l’assunto di Amartya Sen per cui “famine do not occours in democracy”, vale a dire che la carestia (o in questo caso l’epidemia) non è un’evenienza possibile in democrazia. La motivazione in realtà – la necessità dei politici di conservare il consenso degli elettori con conseguente impegno a tutelarne il benessere – è curiosamente alla base della diffusione devastante dell’epidemia nei paesi occidentali, colpevoli di aver voluto tutelare la libertà individuale dei cittadini imponendo misure restrittive solo all’ultimo. Altro aspetto da considerare è quello del diritto alla privacy, la cui violazione è alla base delle strategie di contenimento, senza dubbio efficaci, dei paesi asiatici.

Sebbene le misure restrittive, imposte insindacabilmente dall’autorità centrale, siano state spesso recepite come anticamera di totalitarismo, è bene ricordare quanto affermato da Hobbes nel Leviatano: gli Stati nascono dalla cessione di parte delle libertà personali per massimizzare le possibilità di sopravvivenza. Nel momento in cui la troppa libertà – o l’abitudine a questa – inficia le possibilità di sopravvivenza, sarebbe da riflettere sulla necessità di ristabilire i rapporti che regolano le interazioni tra individuo e cittadino, senza che questo voglia dire abbracciare un totalitarismo cinese. Come ha fatto notare Derek Thompson, there are no libertarians in a pandemic.

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.

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