Qualche settimana fa Michael Shellenberger, scrittore e fondatore del think tank Enviromental progress, ha pubblicato sul suo sito un’inchiesta corposa dai contorni torbidi per quanto riguarda la salute pubblica e lo sviluppo della società: i percorsi di transizione di genere per le categorie più fragili, minori e malati psichiatrici.

L’attivista ha pubblicato dei leaks trapelati dalle chat interne a un’organizzazione per lo studio e l’assistenza medica e psicologica al mondo trans, la WPATH (World Professional Association Of Transgender Health), considerata la maggiore autorità mondiale per quanto riguarda la medicina di “genere”.

Il materiale pubblicato include diversi tipi di informazioni, un corpus consistente di screenshot di messaggi nei forum, video ed estratti di scambi fra professionisti, estesi in un arco temporale che va dal 2021 al 2024. Tutti i nomi degli attori coinvolti sono stati oscurati ad eccezione del dottor Marci Bowers, ginecologo americano presidente della WPATH e l’endocrinologo canadese dr. Daniel Metzger.

I teorici della medicina di “genere” affermano che essa è basata su standard qualitativi e quantitativi scientifici, esattamente come le altre branche della medicina. Da questa inchiesta si evince che le cose non stanno esattamente così ma che i professionisti coinvolti procedono con protocolli non stabili, modificati caso per caso, orientandosi per “prove ed errori”.

Nei file i membri dell’organizzazione mostrano una scarsa preoccupazione per le conseguenze a lungo termine dei trattamenti ormonali per la disforia di genere, nonostante siano a conoscenza degli effetti collaterali altamente probabili come l’infertilità, le disfunzioni sessuali e possibili tumori.

Uno scandalo che si somma a quello che ha portato alla chiusura della famigerata clinica inglese Tavistock.

La transizione di genere: una storia che viene da lontano

Il primo studioso a occuparsi di transizione di genere fu il sessuologo tedesco Magnus Hirschfeld, il quale nei primi del ‘900 coniò il termine “travestito” e supervisionò il primo intervento chirurgico di “riassegnazione” del sesso. Oggi sono aumentati in maniera esponenziale le richieste per i percorsi di cambiamento di genere. A febbraio 2019 l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) aveva esteso la prescrivibilità e la rimborsabilità della triptorelina come bloccante puberale per il trattamento di adolescenti con disforia di genere. Sin dagli anni ’80 si è iniziato a ricorrere abitualmente ai bloccanti degli ormoni sessuali, soprattutto per curare alcuni tumori (esempio, alla prostata o al seno) e altre condizioni ormone-sensibili (endometriosi o fibromi uterini); ma anche per trattare bambine e bambini che presentano pubertà precoce centrale (CPP).

Il mito scientista in medicina

Una delle argomentazioni più utilizzate da parte dei progressisti in questi anni per avvalorare le loro tesi è quella dell’infallibilità della Scienza (scritto non a caso maiuscolo per dipingere la visione di totem sacro che taluni ne hanno). Sia riguardo le politiche in periodo pandemico che per ciò che concerne le teorie LGBT, chi non le sostiene non (in tutto o in parte) è una persona ignorante e antiscientifica che non crede al positivismo e alle parole degli scienziati, che ormai sono assurti al ruolo di “clero laico” in mezzo ad un mondo di profani.

Il tecnicismo poi ha dei limiti evidenti, pochissime questioni sono settoriali e riservate ai soli esperti, gran parte delle questioni che interessano il cittadino hanno a che fare con temi politici e valoriali. Inoltre i filosofi della scienza già nel ‘900 mettevano in guardia dal giudicare il metodo scientifico come asettico, bensì proponevano di vederlo come immerso nella società da cui trae contesto e legittimazione.

Il filosofo Kuhn parlò di “paradigma” che indica delle «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo di tempo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo della ricerca». Anche nel caso della medicina di genere siamo immersi in un paradigma che stabilisce i contorni di cosa è legittimo o no per non essere definibili come etici, giusti e scientifici.

Un vaso di Pandora scoperchiato…

Negli scambi di messaggistica pubblicati integralmente dal think thank i partecipanti si interrogano su diverse questioni inerenti la loro pratica clinica, le più rilevanti sono le conseguenze a lungo termine delle terapie ormonali, la chirurgia in minori di 18 anni, il problema del consenso attivo e partecipato ai trattamenti nei pazienti con disforia di genere e malattie psichiatriche e i casi di “detransizione”, ovvero le persone che dopo un percorso di “riaffermazione di genere” vogliono smettere con le terapie.

Ciò che preoccupa inoltre è una questione anagrafica, il report pubblicato ci fa notare l’assenza di un limite di età per l’inizio dei trattamenti ormonali, limite che esisteva nelle linee guida dell’associazione fino al 2012 (SOC, Standard Of Care, progressivamente ampliate e modificate in ottica arbitraria e finalizzate alla tutela dei professionisti da controversie legali).

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Questo è in linea con l’idea che sia giusto a tutela del soggetto iniziare quanto prima il percorso di transizione di genere nei bambini con tendenze disforiche o con dubbi sulla propria appartenenza “di genere”. Una tendenza discutibile non solo eticamente (per quanto riguarda la manipolazione di soggetti in cui l’identità e l’autodeterminazione non è sviluppata), ma che è errata scientificamente, poiché la letteratura afferma che la maggior parte degli adolescenti con disforia di genere si “riappacifica” con il proprio sesso e solo una parte è motivata genuinamente ad andare avanti con la “riassegnazione” chirurgica.

I temi trattati nelle chat sono diversi, la prima discussione riportata si riferisce ad un dubbio di un medico che chiede se sia giusto operare un quattordicenne che ha già iniziato il percorso di transizione, le risposte sono varie, un professionista timidamente fa notare che i tessuti a quell’età sono immaturi, ma che comunque la scelta è soggettiva e ogni caso va valutato per sé, un collega  afferma che ha praticato circa 20 vaginoplastiche in pazienti under-18 e aggiunge che “bisogna procedere compatti” come società scientifica poiché “gli attacchi della destra aggressiva” hanno in qualche modo fatto desistere alcuni chirurghi dalla propria azione medica.

Un altro tema trattato cospicuamente nella varie chat è la sovrapposizione tra pazienti con diagnosi psichiatrica che contemporaneamente stanno compiendo un percorso di transizione. Un professionista afferma di avere “una lotta interna a sé stesso” poiché non sa se procedere con la terapia ormonale su un paziente con tratti gravi di psicopatologia. A tale quesito il dott. H. Karasic risponde di non capire fino in fondo il dubbio poiché anche nei pazienti psichiatrici è possibile ottenere un consenso franco come in tutti gli altri pazienti e che la mera presenza di patologie non impedisce l’assunzione di terapie ormonali se da queste i benefici eccedono i rischi.

Esatto. Proprio il calcolo costi-benefici. Vi ricorda qualcosa? Un ragionamento che la persona e le organizzazioni razionali fanno quando devono prendere delle decisioni importanti e dirimenti. Difatti un topic delle chat è proprio la presenza di effetti collaterali importanti in seguito a progressive terapie ormonali sostitutive (HRT). Nel botta e risposta tra i parlanti si nota una mancanza di follow up nel tempo per capire la sostenibilità e le conseguenze a lungo termine dell’uso di tali farmaci. In un intervento nel forum datato dicembre 2021, un dottore descrive il caso di una paziente di 16 anni che ha sviluppato un epatocarcinoma dopo aver assunto una cura per sopprimere le mestruazioni, patologia che ammette essere molto probabilmente legata alle terapie pregresse.

I rischi più comuni delle terapie ormonali sono la sterilità e tumori. Per quanto riguarda il primo punto, in una discussione sul consenso informato, la dottoressa Dianne Berg ammette che agli agli adolescenti si spiega degli effetti del protocollo, ma che spesso né loro né i genitori hanno la maturità personale e la conoscenza biologica per capire fino in fondo.

Lavaggio del cervello ai pazienti

Un’altra discussione è relativa ai casi di “detransizione”, cioè pazienti che vogliono interrompere il percorso di “transizione di genere” o che addirittura si pentono in toto di esso. Questo fenomeno è stato relegato nella vulgata comune a evento marginale, relegato a circa l’1-2% dei casi totali o addirittura definito come causa dello stigma sociale che le persone transgender provano. In realtà la questione è molto più complessa, alcuni pazienti non mostrano espressamente rimorso quanto piuttosto episodi depressivi, difficoltà a mantenere relazioni a lungo termine e vergogna per l’aspetto degli organi sessuali. Questa sottostima potrebbe essere data dalla sofferenza comprensibile che un paziente sperimenta e dunque dal meccanismo di “dissonanza cognitiva” che lo porta a non riconoscere l’errore e il pentimento. In un thread di discussione un professionista racconta il caso di un paziente che si mostra “arrabbiato” perché percepisce di aver subito un “brainwashing” (lavaggio del cervello), a questo proposito qualcuno gli risponde di considerare anche la detransizione come una tappa del “viaggio di genere” che la persona sta compiendo.

Il report descritto merita l’approfondimento e l’attenzione di quanti credono che la medicina debba essere a a capo della tecnica e non sua schiava, di tutti quelli che ritengono che l’ideologia e l’attivismo non debbano dominare la scienza, poiché come in molti eventi della Storia a fare le spese saranno le fasce deboli della popolazione.

Psicologa.