di Enrico Petrucci

C’è ancora domani, l’opera prima di Paola Cortellesi dietro la macchina da presa si è rivelato un campione d’incassi. Successo che sta per superare i 30 milioni di euro e forse sorpassare l’altro “caso cinematografico” del 2023: Barbie. E con Barbie, C’è ancora domani condivide anche quello di essere diventato un caso mediatico a base di “femminismo vs patriarcato”.

Solo bolla mediatica o successo meritato? Certamente per C’è ancora domani il caso mediatico è stato anche inizialmente alimentato (magari anche per oscurare il valido ma patriarcale Comandante con Pierfrancesco Favino ) ma a differenza di Barbie che si presta anche a letture antitetiche (qui le due analisi contrapposte del Machiavelli: quella positiva e quella negativa) per il film di Paola Cortellesi il verdetto è immediato: sul piano cinematografico è un ottimo film.

Sull’usato sicuro degli stilemi neorealisti gioca con lo spettatore e realizza un plot-twist in linea con Shyamalan e Nolan (avvisiamo il lettore che ci saranno spoiler). Certo il film rimane un ibrido: un dramma costruito con gag e personaggi macchiettistici da film demenziale. E non mancano le lungaggini. Pure lo spettatore esce dalla sala soddisfatto.

Il limite (e i problemi) di C’è ancora domani non sono sul piano tecnico. Ma sul piano simbolico e comunicativo di quello che questo film sta diventando. Percepito e raccontato come una sorta di doppio documentario sul patriarcato dell’Italia di allora e sull’Italia di oggi, e non quella sorta di favola-satirica qual è.

Attribuire a  C’è ancora domani un reale valore documentaristico e di riscatto sociale al netto del film e dei suoi “giochi di prestigio narrativi” non è solo un errore. Ma realizza una visione nichilista del riscatto sociale della protagonista Delia. L’apprezzamento acritico di C’è ancora domani porta a un paradosso da Comma 22: ci si emancipa partecipando al voto, ma allo stesso tempo votare è completamente inutile, perché settant’anni dopo il patriarcato del manesco Sor Ivano è ancora qua.

Più che il film in sé (ripetiamo valido), la riflessione che ha causato ha del surreale e diventa la cartina tornasole degli oggettivi limiti del dibattito culturale italiano, e di quella sorta di sudditanza psicologica nei confronti del totem del neorealismo cinematografico.

Un’idea forte ispirata da Anna Garofalo

Ma prima entrare nel dettaglio delle letture di C’è ancora domani è necessario svelare il plot-twist che lo ha portato al successo. Il film parte come dramma d’impronta neorealista: Delia, moglie e madre vittima delle violenze del marito vive come unica prospettiva di riscatto il matrimonio della primogenita con un “buon partito”. Su questo canone classico s’innesta quella che sembra una prospettiva di fuga di Delia con un vecchio amore, il meccanico interpretato da Vinicio Marchioni che sta per emigrare al nord. Ma scopriremo alla fine che l’agognata fuga di Delia non è andare al nord con la vecchia fiamma, né nella posta si è palesata una lettera d’amore. La lettera è una scheda elettorale e la “fuga” è la l’andare a votare per il referendum monarchia-repubblica e per le elezioni dell’assemblea costituente: il primo voto aperto al suffragio femminile.

Allegoria tra lettere d’amore e schede elettorali ispirata alla frase della giornalista Anna Garofalo che chiude il film: le schede elettorali come lettere d’amore. La trovata funziona, lo spettatore è stato sviato. Il gioco di prestigio è riuscito.

Soddisfatto lo spettatore. Ma riflettendo si scopre che è stato solo un trucco: i personaggi sono solo macchiette in funzione della scenetta di turno, totalmente privi di motivazioni. Il contesto è drammatico ma la risoluzione è comica.

Stereotipi tra patriarcato e gag

Che C’è ancora domani sia più una favola satirica che un campione del neorealismo lo rendono evidente le continue gag che rendono “comica” la violenza del marito: il film si apre con il risveglio dei due e il marito che risponde con un manrovescio al “Buongiorno” della moglie. E il padre del protagonista violento e manesco quanto il figlio, tiene a ribadire all’erede che lui picchia la moglie troppo spesso, ergo la “violenza” perde di significato. Per poi sbrodolare in una scenetta nella quale secondo il padre i problemi di coppia discendono dal fatto che il figlio non ha sposato una sua cugina. Retroterra antropologico-culturale della provincia italiana? Nah, la trovata dello sposarsi (o meno) tra i cugini è una vecchia trovata dei Simpsons (Episodio 24, 6a stagione). Più che violento simbolo del patriarcato ricorda il Nonno Felice del tardo Gino Bramieri.

Storia che procede con sketch, o virtuosismi di regia. Anche ben riusciti come la violenza che si trasforma in una sorta di danza sulle note di Nessuno riarrangiata dal duo voce e contrabbasso Musica Nuda. Puro cinema che ricorda in tempi di cancel culture come si possa trattare con ironia anche di drammi e disgrazie. Anzi pericolosamente la scena pare suggerire che la vittima sia anche complice, accettando le violenze in un tragico passo a due.

Una “miscela esplosiva”?

Tutto in C’è ancora domani è volutamente eccessivo. E per far “saltare” il matrimonio della figlia quando Delia comprende che il buon partito della figlia sarà violento come il Sor Ivano di Mastrandea arriva a far saltare in aria il bar della famiglia dello sposo con l’aiuto di un Military Policeman statunitense!

La favola di Paola Cortellesi realizza una scena che rimanda all’immaginario del racket e diventa lo snodo narrativo per risolvere un matrimonio a rischio. La scelta di risolvere la violenza del patriarcato con il tritolo davanti a una serranda sembra una trovata del comico Renato Minutolo quando imita lo storico Alessandro Barbero… “con la violenza si risolve tutto, basta usarne abbastanza…”.

C’è ancora domani procedere per iperboli: diverte o commuove lo spettatore senza preoccuparsi di far maturare la consapevolezza della protagonista Delia. La maturazione dei personaggi avviene, come dicono in Boris: “Così de botto senza senso.

La stessa figlia e promessa sposa, sorta di grillo parlante femminista nella prima metà del film, non si capisce perché sia così consapevole. È una figlia del patriarcato e di una madre abbrutita nella Roma popolare del 1946: dove avrebbe dovuto maturare tutta quella coscienza di categoria e di classe? Con un po’ di sforzo gli sceneggiatori avrebbero potuto accennare al sindacato, o mettere un libro come Nessuno torna indietro della de Céspedes sul comodino della ragazza? Niente, malignamente ci si chiede se questa maturazione della ragazza non dipenda dall’aver frequentato le Giovani Italiane prima del 1943… un po’ come tutti quei grandi intellettuali antifascisti usciti dalle fila dei  GUF.

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Gag e buona regia che intrattengono lo spettatore fino al disvelamento finale. Tutte le donne del film (che tra di loro hanno mostrato fino al quel momento nessuna solidarietà femminile) si ritrovano a votare. La scheda nell’urna come lettera d’amore volta a un bene superiore. Il valore intrinseco della liturgia del voto. Un bel messaggio in tempi in cui tra Brexit e Trump il suffragio universale è considerato un pericolo e la democrazia sopravvalutata.

Ma allo stesso tempo siamo sicuri che il messaggio di C’è ancora domani sia realmente positivo? Una bella analisi dal punto di vista storico-memetico e cinematografico l’ha fatta Marco Grosoli sul sito di cinema spietati.it. Scrive Grosoli:

«Se il film credesse a questa prospettiva come miriadi di spettatori benintenzionati sembrano, incredibilmente e ostinatamente, determinati a crederci, sarebbe il film più brutto, qualunquista e abietto del mondo. Sarebbe un film che dice al pubblico: abbandonate ogni speranza di ascesa sociale e abbiate fede nella Storia perché il progresso arriva automaticamente senza che voi sviluppiate la minima forma di coscienza».

Il paradosso: un comma 22 tra voto e patriarcato

Ma non c’è solo quello che osserva Grosoli relativamente al film in sé e al genuino entusiasmo che l’ha accolto. Il problema è anche che C’è ancora domani è stato accolto come una sorta di documentario, di testimonianza di vita vissuta (come racconta Paola Cortellesi nelle interviste è anche ispirato ai racconti di sua nonna) e come denuncia del patriarcato imperante. E tra molti entusiasti recensori del film si realizza un ulteriore paradosso (oltre alla lettura nichilista evidenziati dagli spietati): nel 1946 si è votato contro il patriarcato, ma il patriarcato è ancora qui.

Dal genuino entusiasmo per C’è ancora domani si è passati ad una accettazione acritica di qualunque implicazione del film. Un evento che è stato possibile per tre condizioni. L’oggettivo impoverimento del dibattito intellettuale, il film piace perché è “w la democrazia ʍ il patriarcato”. Un riflesso condizionato degno delle meccaniche della neolingua cesellata dal Ministero della Verità di George Orwell.

Poi c’è il gioco delle parti in un’opinione pubblica che combina la consueta e morbosa attenzione per la nera con forme di moral panic a cui lo stesso governo sembra non riuscire a sottrarsi. Ergo questo (come Barbie) è il film che ci vuole, e al passaparola si aggiunge la grancassa dei media. Vedere il film è azione politica, prima che cinematografica. È una forma di educazione sentimentale e via con i matineé per le scuole.

L’ambiguo mito del neorealismo

Ma c’è un ultimo elemento che ha contribuito al successo istintivo nel grande pubblico, e pare aver annullato qualunque difesa cognitiva nell’analisi del film. C’è ancora domani è una perfetta combinazione del mood neorealista con elementi della commedia. Il film risulta vero, non perché verosimile (anzi fa tutto per non esserlo), ma perché si mimetizza con quegli stilemi. È un neorealismo interiorizzato, per cui l’Italia può essere solo quella stracciona dei lustrascarpe e dei furbi falliti di tanta commedia all’italiana. Una sorta di mito negativo interiorizzato da generazioni, nonostante le due correnti propriamente dette coprono solo una piccola parte della lunga avventura del cinema italiano.

Ecco, quando si dice che l’Italia postbellica è priva di miti si sbaglia. La combinazione neorealismo e commedia all’italiana è ormai un mito forte e radicato, e, quel che è peggio, gli italiani non si accorgono nemmeno di vivere in quel mito. Il successo di C’è ancora domani si spiega così.

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Saggista e divulgatore, tra le sue pubblicazioni Alessandro Blasetti. Il padre dimenticato del cinema italiano (Idrovolante, 2023). E con Emanuele Mastrangelo Wikipedia. L’Enciclopedia libera e l’egemonia dell’in­formazione (Bietti, 2013) e Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia (Eclettica, 2020).