di Emanuele Mastrangelo e Enrico Petrucci

Hayao Miyazaki, il grande animatore nipponico, uno dei massimi esponente del cinema mondiale, premiato con l’Orso d’Oro, l’Oscar e il Leone alla carriera, ridotto a vuoto slogan della sinistra italiana. Questo è stato uno degli strascichi della visita del premier Giorgia Meloni a Tunisi, durante la quale qualche manifestante locale ha alzato cartelli che recitavano “meglio porco che fascista”. Motto ripreso anche da Giorgia Linardi, portavoce della Ong “Sea Watch”, in chiusura di un suo editoriale su La Stampa.

La frase “meglio porco che fascista” è estrapolata da uno scambio di battute tra i protagonisti del film Porco Rosso realizzato da Hayao Miyazaki nel 1992. Film che è un autentico e profondo omaggio del regista nipponico all’Italia e all’aviazione italiana, di cui è appassionato e fine conoscitore. Il regista aveva già avuto dei rapporti col nostro Paese: nei primi anni ’80 aveva lavorato con la Rai e lo Studio Pagot (Calimero) per realizzare la serie Il Fiuto di Sherlok Holmes una coproduzione che dimostra la vitalità della TV pubblica dell’epoca (e da cui forse bisognerebbe ripartire). Porco Rosso, nonostante la sua poesia e l’ambientazione in Italia fu bellamente ignorato nel Bel Paese fino alla distribuzione avvenuta quasi vent’anni dopo, nel 2010, quando dove finalmente poté essere apprezzato dal suo pubblico d’elezione. Salvo però diventare una sorta di santino del 25 Aprile, con la battuta «Meglio porco che fascista» che permetteva di sdoganare tutto a un tratto il mondo dell’animazione e del fumetto nipponico che dalla fine degli anni ’70 era visto con sussiego, sospetto e pregiudizio dall’intellighenzia di sinistra.

Ma l’infatuazione dell’intellighenzia verso manga e anime è durata poco, ed è rimasta solo la battuta «Meglio porco che fascista». Per il resto, salvo pochi casi, la cultura italiana – di sinistra ma non solo – ha ricominciato a snobbare se non detestare il mondo dell’animazione nipponica. Non a caso a nessuno, nel centenario dell’Arma Azzurra, è venuto in mente di chiamare in Italia il regista del più bel film sulle ali italiane mai realizzato…

La puzza sotto il naso della cultura nazionale nei confronti dell’animazione nipponica è vecchia tanto quanto l’invasione delle TV da parte degli anime: nel 1978 a scagliarsi contro la dimensione intrinsecamente fantastica dei cartoni animati giapponesi era stato il sociologo Giampaolo Fabris, che dalle pagine de L’Unità aveva criticato l’animazione giapponese per l’irruzione televisiva “del magico, dell’irrazionale” e “di valori arcaici”. Poi pochi mesi dopo era stata la volta del deputato di Democrazia Proletaria Silverio Corvisieri a criticare dalle pagine de La Repubblica il povero Goldrake perché celebrava: “l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del ‘diverso’ (chi viene da altri pianeti è sempre un nemico odioso…)”.

Ma quasi 40 anni dopo gli stereotipi contro “l’invasione dell’intrattenimento nipponico” (e dei suoi valori) la musica non pare cambiata. Basti vedere gli editoriali che cercano di spiegarsi il successo di opere come il fumetto One Piece, che è il prodotto tipografico più venduto in Italia. Tornano gli editoriali pieni di luoghi comuni. A cascarci nel 2021 anche Veltroni dalle pagine del Corriere della Sera. E lo scorso aprile è la volta di Antonio D’Orrico, sempre sul Corriere, in gloria di Manara ed Eco contro un altro manga di successo come Demon Slayer.

Ma cos’è Porco Rosso e perché l’Italia culturale dovrebbe riscoprire un autore come Miyazaki, che ha continuato ad onorare la nostra Storia anche in altri film? Chi scrive ne ha parlato nel volume Gli assi del volo italiani: Mario Visintini, da Parenzo all’Africa orientale italiana. Vita e imprese di un eroe del volo, a cura di Emanuele Bugli e di Lorenzo Salimbeni (Associazione Coordinamento Adriatico APS). Hayao Miyazaki è considerato il più grande regista d’animazione giapponese e fra i maggiori del mondo. Porco Rosso non è l’unica opera in cui Miyazaki parla d’aerei e d’Italia, due tematiche che – a volte in coppia – attraversano buona parte delle sue opere. A partire proprio dal nome dello studio d’animazione che nel 1985 aprì insieme al collega, Isao Takahata chiamato “Studio Ghibli” dal nome di un aereo della Caproni. La vicenda di Porco Rosso è quella di un reduce che non riesce a reinserirsi nella società postbellica: l’ex pilota della Grande Guerra Marco Pagot. Marco è rimasto sfigurato in battaglia e ha ora il volto che somiglia a quello di un maiale. Dopo il conflitto fa il cacciatore di taglie nei cieli dell’Adriatico con un idrovolante rosso, sventando su commissione delle compagnie di navigazione i dirottamenti dei “pirati dell’aria”. Alle calcagna di Marco si mette la polizia fascista, che non tollera più teste calde nei cieli italiani e pretende un rientro nei ranghi. E inoltre un rodomontesco pilota americano, Donald Curtis, ingaggiato dalla mafia dei pirati dell’aria per toglierlo di mezzo. La vicenda prosegue in un tourbillon di fughe e inseguimenti, duelli per donne, denaro e reputazione e il tutto ambientato in un’Italia degli anni Venti, fra i capannoni industriali sui Navigli milanesi e le ville dei grandi laghi subalpini.

LEGGI ANCHE
Chiudete la finestra di Overton - prima che ci entrino gli insetti (da mangiare)

Come per il più famoso John Rambo, la storia di Porco Rosso parla di reduci che rifiutano il ritorno alla normalità (quel “meglio porco che fascista” è da leggere molto più in quel senso che in chiave ideologica). E non a caso il protagonista viene salvato dalla polizia fascista proprio dall’amico Arturo Ferrarin (personaggio storicamente esistito), che viene salutato con un “ciao, camerata” durante la fuga. In altre parole, la complessità della storia di Porco Rosso ridotta a quella sola frase estrapolata dal contesto suona proprio come una bestemmia in chiesa.

Miyazaki, insomma, è un autore che non merita d’essere tirato per la giacchetta e arruolato in chiassate triviali. Sarebbe invece importante accostarsi alla sua opera con rispetto, cercando di comprenderne le sfaccettature, coglierne i messaggi profondi e universali che ha lanciato al suo pubblico. Sebbene sia possibile con un certo sforzo incasellare Hayao Miyazaki nella categoria di “sinistra”, il pacifismo e l’antifascismo del regista giapponese divergono profondamente da come li intendiamo oggi in Italia e Occidente. In particolare il pacifismo di Miyazaki non è un passivo «ripudio della guerra» ma un riconoscimento della necessità di combattere per la pace e per ciò che è giusto; l’ecologismo di Miyazaki è venato di suggestioni scintoiste e forse esoteriche ed attraversato da un pessimismo di fondo circa il rapporto fra uomo e natura, fattosi tanto più acuto con la sua maturazione artistica.

Coraggio, senso del dovere e del sacrificio, amore per la famiglia, per la natura, per la storia, per la giustizia e la libertà sono solo alcuni dei valori universali propugnati da un maestro come Hayao Miyazaki. Che la cultura italiana lo lasci nelle mani di gente in grado tutt’al più di estrapolare malamente una battuta da un suo film è un delitto.

+ post

Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è stato redattore capo di "Storia in Rete" dal 2006. Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).

+ post

Saggista e divulgatore, tra le sue pubblicazioni Alessandro Blasetti. Il padre dimenticato del cinema italiano (Idrovolante, 2023). E con Emanuele Mastrangelo Wikipedia. L’Enciclopedia libera e l’egemonia dell’in­formazione (Bietti, 2013) e Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia (Eclettica, 2020).