di Gioacchino La Rocca

1 – Le dimensioni dell’identità

Non da oggi l’identità è messa in discussione. Sia l’identità biologica, qualificata come diritto fondamentale dalla Corte Costituzionale a conoscere le proprie origini biologiche in quanto fondative del “sé” di ciascun individuo, sia l’identità collettiva, sono minacciate da una visione globalista del mondo e delle relazioni umane. Il fine è evidente: la costruzione di un mondo indifferenziato, in vista di un essere umano “altro” da quello che finora abbiamo conosciuto, in quanto deprivato della sua identità individuale e collettiva.

Non è un caso che questo attacco all’uomo – uti singulus e uti socius, avrebbero detto i giuristi un tempo – si estenda alla famiglia e a quella particolare formazione sociale designata da un sociologo inglese “comunità etnica”, nella quale egli individua il tessuto connettivo della Nazione, come si dirà meglio più avanti.

Queste due formazioni sociali sono strettamente collegate tra loro ed entrambe concorrono alla definizione dell’essere umano. Gli antropologi sono unanimi nel sostenere che ogni società umana si è strutturata su una unità domestica dalle dimensioni più o meno piccole, centrata su una coppia eterosessuale e i loro figli. Fin dalle pagine iniziali della Politica di Aristotele, questa cellula, fondata sulla comunanza di sangue dei suoi componenti e dunque su quel “sostrato biologico e materiale” individuato quale momento ineludibile dell’identità individuale, ha costituito l’elemento fondativo della persona che vi nasce, e – al tempo stesso – la struttura elementare di base di quei legami di parentela, su cui – ci avvisano gli antropologi – si sono costituite le organizzazioni sociali con le loro vesti politiche.

Si coglie, a questo punto, il parallelo intercorrente tra identità individuale ed identità collettiva: entrambe affondano le loro radici in un passato dal quale gli individui – ancora una volta: uti singuli e uti socii – non possono prescindere: possono aderirvi e comunque rielaborarlo e svolgerlo nel futuro, “facendone oggetto della loro volontà”, come è stato detto; oppure se ne possono distanziare; ma – quale che sia la loro scelta – ne restano comunque condizionati in un senso o nell’altro. In altre parole, il passato, le origini rappresentano un retaggio al quale né gli individui, né i gruppi possono sottrarsi.

Per quanto riguarda i gruppi, gli psicologi sociali hanno posto in luce elementi già a suo tempo colti ed elaborati da Hegel: ciascun gruppo sociale è attraversato da bisogni identitari in grado di creare coesione tra i componenti del gruppo indicando loro uno scopo comune. Al tempo stesso, il gruppo, i suoi scopi, con le correlate “narrazioni”, costruiscono e rafforzano l’identità di ciascun componente del gruppo stesso.

È per l’appunto questo bisogno identitario collettivo che è alla base dell’idea di Nazione. Ne ho già discusso altrove, vuoi quando ho accennato all’intervenuta costituzionalizzazione dell’idea di Nazione, vuoi quando ho tratto le possibili conseguenze offerte su un piano latamente ideologico dai riferimenti costituzionali e legislativi al “patrimonio storico e artistico”: quest’ultimo consiste in “res signatae” (ancora un latinetto!), ossia in durature testimonianze, materialmente impresse sul territorio geografico denominato Italia, della esistenza materiale e degli aneliti ideali delle generazioni che nel tempo si sono alternate su quel territorio.

2 – Identità e Nazione

Il dato normativo, costituito da disposizioni costituzionali di vertice, è sicuramente importante e significativo, in quanto attesta che l’idea di Nazione innerva l’ordinamento vigente offrendo spunti per delineare una particolare forma organizzativa dello Stato e della sua struttura sociale.

Esso peraltro non può essere sufficiente. Più precisamente, malgrado la sua importanza, il dato normativo non esonera dalla necessità di verificare la persistente vitalità dell’idea di Nazione – in quanto momento collettore di un’identità collettiva – nel XXI secolo, tenuto conto del vivace dibattito sviluppatosi in materia negli ultimi decenni.

Al riguardo, nel precedente paragrafo sono emersi taluni aspetti meritevoli di attenzione da parte di chi indaghi sull’identità collettiva. Mi riferisco a 1) il collegamento tra famiglia e organizzazioni sociali; 2) il collegamento di entrambe queste ad un territorio; 3) il retaggio culturale, condiviso dalle famiglie, dai gruppi sociali più ampi e dai popoli, che vivono in un determinato territorio; 4) il formarsi di una consapevolezza collettiva del senso di tale retaggio.

Ovviamente questi aspetti non sono affiorati per caso. Essi, infatti, sono al centro degli studi avvicendatisi sul tema della Nazione e delle identità nazionali negli ultimi decenni.

Vi è stato, ad esempio, chi ha fatto leva su un momento latamente biologico per argomentare che “la famiglia, il luogo e la propria gente generano, trasmettono e proteggono la vita” e su questa ispirazione “primordiale” ha costruito l’idea di Nazione. Gli esponenti di questo orientamento sottolineano come questi “elementi di primordialità” non siano circoscritti agli Stati di nuova costituzione, nei quali – l’esempio nordafricano è sotto gli occhi di tutti – non sembra agevolmente risolvibile il conflitto tra la “esigenza di un ordine razionale”, da un lato, e vincoli e retaggi di matrice tribale dall’altro lato. Nei loro studi, questi ricercatori sostengono che elementi di “primordialità” continuano a manifestarsi anche nelle società più complesse ed è irragionevole e fuorviante non tenerne conto.

Ed ancora negli aspetti prima evidenziati affiora l’idea di chi ha ritenuto di costruire la “Nazione” sulla “comunità etnica”, ossia su quella “popolazione umana che ha un nome proprio collettivo, miti di ascendenza comune, memorie storiche e simboli condivisi, elementi di una cultura comune, un’associazione con un particolare territorio e un certo grado di solidarietà”.

Come si vede, sono numerose le suggestioni che si delineano nel dibattito recente sull’idea di Nazione.

Tali suggestioni sono destinate a moltiplicarsi quando si presti attenzione alla riflessione plurale, che negli ultimi quarant’anni ha rinnovato l’attenzione sui due interrogativi, tra loro strettamente collegati: “che cosa è Nazione” e “quando nasce la Nazione”.

Visioni diverse si sono confrontate su questi aspetti, i quali a tutta evidenza appaiono decisivi per stabilire I) “se” sia ancora utile porsi il problema di una “identità italiana”; II) se una tale identità sia effettivamente configurabile; III) attraverso quali criteri si possa pervenire all’identificazione di una “individualità italiana”; IV) in quali termini si possa parlare e dunque in cosa consista tale “identità italiana”.

L’importanza di questi punti è evidente.

Ad esempio, è evidente che forti dubbi sarebbero giustificati circa l’utilità di “lavorare” oggi sull’identità italiana qualora si aderisse all’opinione, secondo la quale la “Nazione” sarebbe soprattutto un “prodotto” elaborato dalle élite culturali maggiormente funzionali agli interessi del capitalismo industriale del secondo Ottocento, onde alimentare le egemonie in quella che è stata indicata come “l’età degli imperi”. Ad avviso di quanti aderiscono a questo orientamento “furono i nazionalisti a creare la Nazione e non viceversa”.

Scenari completamente diversi si aprono quando si seguano prospettazioni di altro tipo, le quali traggono conforto da esperienze recenti e recentissime per sostenere che la “Nazione” risponde a quegli imperativi identitari cui si è accennato in apertura, e che il suo recupero è – spesso occasionato da motivi politici contingenti: l’esempio dei “Discorsi alla Nazione tedesca” non è certamente isolato – è destinato a segnare un’epoca.

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Sennonché, gli approfondimenti maggiormente accorti divergono, talora in modo sensibile, a proposito dei criteri utili all’identificazione delle “identità nazionali”. Così, se si ritiene che passo decisivo per la costruzione dell’identità di un gruppo sociale sia l’adozione di una lingua comune, con conseguente sviluppo di una letteratura in cui il gruppo possa riconoscersi nella sua integrità (da ultimo in questo senso Adrian Hastings), le tracce di una “identità italiana” dovranno essere seguite in una direzione ben precisa, di cui evidentemente Dante costituisce una stazione imprescindibile.

Conseguenze diverse si avranno qualora si decida di adottare un diverso criterio identitario. Di particolare importanza è la tesi secondo la quale un’effettiva identità nazionale è configurabile solo quando una consapevolezza identitaria si afferma quale percezione di massa e non sia più appannaggio di circoli ristretti. Su queste premesse, potrebbe affermarsi che una “identità italiana” sorga con la Grande Guerra? Ed anche in questo caso, quale sarebbe la specificità di tale identità? E, a ben vedere, sempre su questa linea, che ruolo riservare all’unificazione politica, ossia alla composizione di uno Stato nazionale, che è generalmente ritenuto un fattore cruciale per più versi, sia nel suo rapporto con la Nazione, sia per la formazione di una identità collettiva nazionale?

3 – Ricerca dell’“identità italiana” e velleitarismo.

Non avrebbe grande utilità continuare ad accennare alla rinfusa a tesi ed orientamenti. Obiettivo di queste note è segnalare la difficoltà del tema dell’identità italiana. Ricercare l’identità italiana, infatti, significa intraprendere la ricostruzione di fenomeni sociopolitici e socioculturali assai complessi e articolati, che non possono essere affrontati con serietà senza porsi il problema del “metodo”.

Mette conto, infatti, ribadire che l’identità nazionale è fenomeno particolarmente complesso. Assai opportunamente si è osservato che “la fisionomia delle nazioni è generalmente determinata dall’interazione di un complesso variabile di fattori eterogenei quali la razza, l’etnia, il territorio, la lingua, le tradizioni, la cultura, un’eredità di memorie condivise, un sistema di istituzioni politiche comuni”. Orbene, ciascuna identità nazionale “costituisce sempre il prodotto di circostanze uniche e irripetibili, di uno sviluppo storico specifico in cui i diversi elementi sopra indicati – o  solo alcuni di essi – operano  in modi e con esiti di volta in volta differenti”.

Ne segue che – anche a voler mantenere un profilo “basico” – l’identità italiana dovrebbe essere indagata nelle sue manifestazioni artistiche, letterarie, musicali, sociopolitiche, belliche, in uno sforzo di comprensione e superamento dei drammatici momenti di divisione. Occorre investigare e comprendere i valori, i simboli, le memorie collettive, le tradizioni, che innervano un’identità italiana finalmente ricomposta, onde stabilire se e come la stessa possa esprimersi nella costruzione di un futuro collettivo, dal momento che, senza una proiezione di questo tipo, si sarebbe fatta solo una ricognizione museale dalla dubbia utilità.

Non basta, dunque, la pur suggestiva idea manzoniana espressa in “Marzo 1821”; non basta una collettività che sia o si percepisca finalmente come “Una d’arme, di lingua, d’altare, Di memorie, di sangue e di cor”. Occorre, anche, che tale unità si concretizzi in un consapevole progetto futuro. La Nazione – ha scritto di recente un sociologo inglese, curiosamente riecheggiando un filosofo italiano della prima metà del Novecento – è “una comunità percepita e voluta”. In altre parole, una identità nazionale, la rinnovata consapevolezza di una Nazione, non può non avere riflessi su un progetto politico collettivo, che ovviamente può implicare adattamenti del quadro complessivo dell’ordinamento costituzionale vigente, nel rispetto ovviamente dei crismi non negoziabili dell’unità, della democraticità e della rappresentatività. Nazione, infatti, è (anche) categoria politica che muove da determinati presupposti e sottintende una specifica visione della società.

Come si vede, riflettere sull’identità italiana impone un percorso concettuale tanto sfidante ed impegnativo, quanto foriero di rischi per chi vi si incammini.

Primo tra tutti, il rischio di esporsi ad un imbarazzante velleitarismo, di cui purtroppo non mancano rinnovati esempi. Più chiaramente, un inefficace impianto della ricerca, innanzi tutto, non risponderebbe in modo adeguato all’esigenza primaria, ribadita da più parti anche recentemente, di aggregare il popolo italiano su una soglia quanto più possibile condivisa, restituendogli consapevolezza. Una ricerca condotta da un noto sociologo anni or sono denunciava come gli italiani ascrivessero il senso di “italianità” a fattori non sempre coerenti tra loro, con una conclusione che il ricercatore allora definiva come “polisemia” e che altri meno benevoli avrebbero potuto chiamare “confusione”. E la confusione non sembra essersi nel frattempo ridotta, visto che talora si affaccia anche tra presunti “dotti”.

Le conseguenze di tutto ciò sono palesi: velleitarismo e confusione danno inevitabilmente credito alle voci tendenti a gettare ombre sul tema dell’identità italiana. in questo senso, a chi preferisce rifugiarsi nell’anodina, neutra “patria”, si affianca chi, con pari alterigia intellettuale, afferma che riflettere ancora sulla identità italiana si risolverebbe in un inutile ritorno all’Ottocento, in un ingenuo “volgere all’indietro delle lancette della Storia”.

È inutile interrogarsi sulla matrice politica di queste “voci”. Esse premono per un’idea destrutturante della Nazione, in quanto mirano sostanzialmente a negare le differenze tra le comunità umane, tra le culture, in funzione di una visione globalista del mondo e delle relazioni umane. Al contrario, il dibattito dottrinale degli ultimi quarant’anni restituisce credito al dato costituzionale ricordato in apertura, che pone la Nazione tra gli assi portanti dello Stato e della struttura sociale prefigurati in Costituzione. In altre parole,

la Nazione è ancora oggi l’unità politico-simbolica e la forma aggregativo-affettiva intorno alla quale continuano a strutturarsi – come è spesso accaduto nel corso del Novecento in molti passaggi storicamente cruciali – lo spazio politico pubblico, le identità e le appartenenze di gruppo, le relazioni internazionali.

Ne segue che il rigore della ricerca di un’identità italiana, prima di essere prerequisito di carattere scientifico, è soprattutto un’esigenza politica.

 

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Consigliere Scientifico del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Già Capo dell'Ufficio Legale di una banca, è attualmente Professore Ordinario di Diritto civile all'Università di Milano-Bicocca. Ha pubblicato sei libri e circa un centinaio di articoli e scritti minori in materia di diritto privato, commerciale, bancario, finanziario.