di Marco Malaguti

La recente campagna d’odio da parte delle Sinistre, istituzionali e no, contro il ministro Giuseppe Valditara (che è anche, tra le altre cose, membro del Consiglio Scientifico del Centro Studi Machiavelli) ha rilanciato, nuovamente e con la consueta virulenza, il mai sopito dibattito sull’antifascismo. Sintomo preclaro di un Paese imprigionato nel suo eterno Novecento e dove lo slogan “25 aprile sempre” è stato preso fin troppo sul serio dalla politica e addirittura da ampi settori delle istituzioni.

L’antifascismo non è solo retorica

Nota a tutti, oltre che di grande successo, è la provocatoria chiosa di Diego Fusaro per la quale in Italia vigerebbe un “antifascismo in assenza di fascismo”. Si tratta di un’affermazione corretta ma che dice poco riguardo alla situazione politica attuale e all’utilizzo strumentale della parola antifascismo. Per gran parte dell’opinione pubblica che guarda a destra l’antifascismo delle Sinistre istituzionali non sarebbe altro che una sorta di paravento, un artificio volto a rivendicare una pretesa superiorità morale con la quale utilizzare l’esclusiva della reductio ad hitlerum dell’avversario politico. Nonostante ciò sia senza alcun dubbio vero occorre rimarcare però che vi è molto altro in gioco nelle quotidiane scaramucce, retoriche o meno, a proposito dell’antifascismo.

La trappola degli assoluti

La nota definizione di Gianfranco Fini che descrisse, durante un viaggio istituzionale a Gerusalemme, il fascismo come “male assoluto” non rappresentò una novità all’interno della politica italiana; al contrario, rappresentava il riconoscimento dell’avvenuta vittoria morale delle Sinistre sulle forze conservatrici. La vittoria in questione, lungi dall’afferire alla questione del fascismo in sé, riguardava piuttosto la facoltà, per le Sinistre stesse, di definire cosa fosse male assoluto.

La novità, culturalmente parlando, non era che il fascismo, non solo come fenomeno storico ma addirittura nell’ampissima e pericolosamente vaga definizione echiana di urfascismo, fosse definito male assoluto, quanto piuttosto consisteva che, a proferire tale definizione, fosse un uomo proveniente dalla Destra nazionale. La parola assoluto ha qui un’importanza capitale. Il male assoluto, proprio perché tale non ha diritto ad alcuna comprensione, non si presta ad alcuna revisione storiografica, è consegnato senza appello alla dimensione infera della politica. Nessuno ha mai messo in discussione la necessità di accontentarsi del proverbiale male minore, ma col male assoluto non è possibile alcuna trattativa: col male assoluto non si tratta, non si mercanteggia con Satana; chi lo fa è esiliato dal consesso umano.

Una religione?

Se l’antifascismo si qualifica come succedaneo della defunta religione di Stato, rinnegarlo significa porsi al di fuori dello Stato stesso. Comincia qui ad emergere la vera natura essenzialmente discriminatoria del fenomeno politico dell’antifascismo contemporaneo. Se il fascismo (o tutto ciò che si vuole chiamare come tale) è il male assoluto, e tutto ciò che è legato ad esso è fuori dallo Stato capiamo bene di trovarci di fronte a qualcosa di ben più cruciale rispetto ad una mera polemica ideologica. Si tratta della sanzione del vecchio slogan, caro alle Sinistre extraparlamentari degli anni di piombo, per le quali “uccidere un fascista non è reato”. A essere temibile, qui, non è l’antifascismo come fenomeno storico di lotta partigiana o resistenza intellettuale, quanto la facoltà, tanto abusiva quanto contemporanea, di decidere, con tutte le conseguenze del caso, chi è antifascista e chi no, cosa è male assoluto e cosa no.

Là dove la legge non vige

Come l’homo sacer dell’antica società romana, figura centrale nella filosofia politica di Giorgio Agamben, il fascista (o supposto tale) viola le leggi divine della città e in automatico, senza neppure bisogno di un processo, si colloca al di fuori delle leggi, della cittadinanza, del culto. Per lo Stato il colpevole è consacrato agli Dei: il suo reato è talmente orribile che neppure un processo umano potrebbe colpirlo senza sporcarsi; lo si affida alla giustizia divina, che sarà libera di esprimersi come crede – linciaggio compreso. I beni del reo sono confiscati e l’eventuale omicidio dell’uomo sacrato non è punito in alcun modo: egli è letteralmente un non-uomo.

Non è possibile in questa sede riassumere per intero le profonde meditazioni di Agamben sulla valenza politica dell’homo sacer, così come non è possibile, in questa stessa sede, trasporre questa figura fuori dall’ambito politico dove pure Agamben correttamente la rinviene (si pensi ai malati terminali o in coma irreversibile, ai malati di mente, etc). Ciò che preme sottolineare è che la presenza degli assoluti (in questo caso il male assoluto) costituisce uno degli inneschi fondanti della tirannide.

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Lo spazio elastico dell’anomia

L’esistenza di un interstizio anomico all’interno di una società, nel quale vivono cose e persone, costituisce un rischio per tutti i cittadini. Esattamente come il focolaio di una malattia infettiva, dove le persone sono degradate al mero rango di oggetto privo di cittadinanza e diritti (non importa qui se formalmente o meno), anche l’interstizio dell’anomia può, in determinate circostanze, allargarsi esponenzialmente ed elasticamente ad altri ambiti. Lo si è visto durante la recente stagione pandemica durante la quale, ai nemici della religione neoscientista, era stato garantito un trattamento di assoluta discriminazione, con tanto di incitamento al loro massacro durante dirette televisive.

Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’antifascismo per come lo conosciamo nel dopoguerra. Lo spazio anomico che ha privato dei suoi diritti la popolazione refrattaria alla vaccinazione non si sarebbe esteso a questa se non fosse già esistito in precedenza. Per un potere è assai facile espandere la sfera dell’anomia, ben più arduo risulta crearla ex novo. Decenni di collaudato antifascismo sono stati propedeutici all’uso indiscriminato dell’esilio domestico di milioni di cittadini e, a questo punto, a chissà cos’altro nel futuro prossimo.

Quando si decide arbitrariamente che alcuni membri di una comunità cessano di essere tali e perdono i loro diritti, allora tutto, nel senso più deleterio del termine, diventa possibile. Non a caso i temuti no vax sono stati quasi immediatamente etichettati come fascisti, segnale inequivocabile della revoca dei diritti civili incombente. Il ruolo di guardia d’onore al sepolcro dell’antifascismo, che le Sinistre si sono riservate, costituisce un temibile strumento, che queste detengono, per definire, in maniera totalmente extraistituzionale, “chi è dentro e chi è fuori”. Solo in virtù di ciò esponenti della Sinistra possono strumentalmente e livorosamente pretendere le dimissioni di un ministro come Giuseppe Valditara, colpevole solo di aver detto la verità.

Se ne può uscire?

Uscire da questo cul de sac non è, tuttavia, difficile. Basterebbe cessare di riconoscere legittimità agli ayatollah dell’antifascismo, ricordando loro che viviamo in uno stato di diritto e non in una teocrazia dove le leggi sono ancillae theologiae. Guai, chiaramente, a lasciarsi sedurre dalla sepolcrale seduttività dell’abilitazione alla scomunica. Se c’è un proposito che la Sinistra ha sempre saputo come rintuzzare è la condivisione del trono antifascista: non è ammesso alcun antifascismo al di fuori dell’ortodossia dogmatica delle sinistre (i fatti di Porzûs ce lo ricordano), così come non è ammesso, nelle sale dell’antifascismo, alcun antifascista che non abbia la tessera giusta. La professio fidei di Gianfranco Fini, come è noto, non ha in alcun modo liberato i suoi discendenti politici dalla più infamante delle accuse.

Solo chi avrà il coraggio di storicizzare completamente il fascismo, dichiarandolo quindi pagina conclusa della storia (come il bonapartismo, il giacobinismo etc.) potrà sconfiggere l’antifascismo di maniera, abolendo finalmente il ruolo di piedistallo che eleva le Sinistre al ruolo di consiglio dei guardiani della democrazia. Esattamente come la moneta anche l’antifascismo si basa sul mutuo consenso. Finché si continuerà a riconoscere all’antifascismo il ruolo di moneta spendibile, non ci sarà da sorprendersi del fatto che qualcuno, allo squallido mercato della politica politicante, lo spenda.

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.