di Daniele Scalea

Il libro di Mastrocola e Ricolfi

La scuola “democratica” si è risolta in un generale abbassamento del livello culturale, che le fa fallire la missione di dare i necessari strumenti cognitivi agli alunni. Abbassare l’asticella, lungi dall’aiutare i figli dei ceti più bassi, come i suoi promotori si auguravano, li ha invece condannati al frequente fallimento, mentre i rampolli di famiglie più facoltose possono recuperare con le lezioni private o, alla peggio, contare sulla rete relazionale avita per occupare comunque i gradini più alti della piramide sociale. Insomma: i progressisti hanno costruito una scuola che produce ignoranti e che, per giunta, accresce le diseguaglianze sociali.

La tesi non è nuova: la scrittrice ed insegnante in pensione Paola Mastrocola la ripete da anni. A lei si debbono anche un paio di pregevoli testi in cui denuncia come la scuola “progressista” tarpi le ali ai migliori. La novità è che nel nuovo Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, la Mastrocola, scrivendo assieme al sociologo Luca Ricolfi, riesce a dimostrare matematicamente la tesi.

I dati cui fa ricorso sono quelli dell’ISTAT, per misurare il livello sociale dei figli e dei loro padri, e quelli dei test INVALSI, che danno invece un metro del valore dell’insegnamento d’una scuola. Il modello per testare l’ipotesi di partenza è frutto dell’ingegno di Ricolfi e della sua Fondazione Hume.

I numeri della diseguaglianza

Il primo risultato osservato è che la generazione dei boomers beneficiò di un aumento della disponibilità delle posizioni elevate: la maggior parte poté migliorare la propria condizione sociale rispetto a quella di partenza (ossia dei padri). Il punto di svolta si registra nel 1977: i nati dopo quella data hanno goduto di minori opportunità rispetto a quelle dei padri. Dal 1990 si è infatti avuta una riduzione delle posizioni medio-alte disponibili nella società: si è cioè bloccato l’ascensore sociale.

La cosa che però preme verificare, agli Autori, è principalmente l’apertura della società, ossia l’eguaglianza di opportunità tra ceti alti e ceti bassi. I dati rivelano che i figli dei ceti alti hanno quattro volte le possibilità di riuscita (ossia di ritrovarsi da adulti in una posizione socio-economica elevata) dei figli dei ceti bassi. A parità di tutte le altre condizioni diverse da quella familiare (stessa età, titolo di studio ecc.), il divario è di 2,6 volte.

A questo punto, Ricolfi (che ha curato la parte matematica del libro) è passato ad esaminare come la qualità dell’istruzione si ponga in relazione all’apertura sociale. Ha osservato che all’aumento della qualità dell’istruzione corrisponde una diminuzione dello svantaggio dei ceti bassi. Per escludere che ciò dipendesse esclusivamente dal benessere contestuale (ossia che la qualità dell’istruzione fungesse da proxy del PIL), ha raffinato ulteriormente l’analisi (per i dettagli rimandiamo al libro, che ospita anche un’appendice tecnica). Il risultato è che frequentare una buona scuola aumenta le chance di successo del 16-35%, frequentarne una cattiva le diminuisce del 14-26%. A parità di altre condizioni, la scuola frequentata può aumentare le possibilità di successo fino a 1,8 volte. A proposito della diseguaglianza, la scuola pessima la amplia: il vantaggio del figlio di ceto alto cresce da 2,6 a 3,7 volte.

Una scuola “democratica” che sfavorisce i poveri

La copertina

Letti questi numeri, qualcuno potrebbe chiedersi perché un alunno ricco sia meno svantaggiato d’uno povero dal frequentare una cattiva scuola. Presto detto: perché l’istruzione di qualità è uno dei pochi mezzi con cui il figlio di ceto basso può attenuare l’impatto dell’origine sociale e competere con quello di ceto alto. Se la scuola non dà strumenti, non forma realmente, allora prevalgono tutti gli altri fattori socio-economici che, ovviamente, favoriscono chi nasce in posizione migliore. Altro che perseguire la meritocrazia: quello lo si sarebbe fatto con premi, borse di studio, accesso ai corsi universitari sulla base della carriera scolastica – spiega Ricolfi. Ciò che i progressisti hanno fatto, invece, è stato perseguire la scolarizzazione di massa – la quantità – anche se ciò significava abbassare l’asticella – la qualità – e, in ultima analisi, dare ai poveri un pezzo di carta in più ma opportunità di promozione sociale in meno.

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Sebbene la parte analitica e dimostrativa rappresenti quella pregnante dell’opera, Il danno scolastico offre anche due ampi e interessanti capitoli di testimonianza, scritti l’uno da Ricolfi e l’altro da Mastrocola. Entrambi ripercorrono il proprio percorso nel sistema educativo – prima come studenti, poi come docenti – mostrando in maniera empirica come lo scadimento scolastico sia avvenuto. Nei loro ricordi riviviamo le varie riforme della scuola e dell’università: la scuola media unificata e semplificata (1963), l’esame di maturità meno selettivo (le bocciature sono passate in un secolo da oltre il 40% a meno dell’1%), i corsi universitari senza requisiti di accesso e con curriculum flessibile (1969),  il “3+2” e la dottrina del “diritto al successo formativo” (2000), fino ai semi-corsi e agli “esoneri” per ridurre la quantità di nozioni da memorizzare o, sul lato scolastico, alla “scuola delle competenze” in luogo delle conoscenze (2007). E i due autori ci testimoniano del risultato finale di queste riforme: l’abbondanza di studenti universitari capaci solo di pensieri elementari e con una padronanza dell’italiano da non madrelingua. Giovani che hanno perso i loro periodi critici cognitivi: precise fasi dello sviluppo in cui è necessario apprendere determinate capacità e abitudini, pena il non poterle apprendere mai e rimanere con lacune incolmabili.

La Destra? Non è certo innocente

C’è un’ultima sottolineatura di Ricolfi e Mastrocola che merita di essere riportata, a maggior ragione in questa sede. Il disastro della scuola “democratica” è responsabilità dei progressisti. Sono stati loro a condurre il gioco di riforma in riforma, una nuova prassi pedagogica dopo l’altra, demonizzando e isolando tutti quegli insegnanti che s’opponevano allo scadimento scolastico. Ma la scuola facilitata è il risultato di un’evoluzione della mentalità collettiva (quella della scuola non come luogo d’istruzione ma di “socializzazione” e “svago”, quella della scuola che non deve mai bocciare), che la Sinistra ha sfruttato e cui la Destra non si è mai opposta. Quando si è trovata al governo, quest’ultima non ha mai cambiato la rotta. Anzi, talvolta ha impresso pure un’accelerazione, come fatto dalla Gelmini, ministra dell’Istruzione dal 2008 al 2011, rea di aver introdotto la valutazione “bibliometrica” dei docenti universitari. Una iper-burocratizzazione degli atenei che ha spostato tutta l’attenzione sul feticcio delle pubblicazioni, ignorando totalmente il ruolo e la qualità dell’insegnamento. Una valutazione standardizzata e ottusa, che ha punito ogni ricerca di ampio respiro e lunga durata per premiare la bulimia editoriale: meglio tanti articoli superficiali e scialbi su riviste “accreditate” che un libro rivoluzionario, magari capace di incidere sul pensiero e la cultura mondiali. Come nella peggiore prassi sovietica, la valutazione è divenuta essa stessa il fine di coloro che venivano valutati, informando ai suoi astrusi e riduzionistici criteri tutto il loro operato.

La Destra non è meno responsabile della Sinistra di questo disastro. Se la scuola è scadente e le nuove generazioni impreparate, la colpa è anche sua. Ora ha il dovere di cercare di porvi rimedio.

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.