di Gianandrea Gaiani

Questo articolo è una versione emendata del discorso tenuto al Convegno Machiavelli Difesa 2022.

 

Tra le decisioni politiche e finanziarie di rilievo determinate dal conflitto in Ucraina emerge l’incremento delle spese militari che coinvolge, nei fatti o nelle intenzioni, tutti i Paesi europei. Come l’adesione ormai diffusa (anche in Italia) all’obiettivo di portare le spese militari al 2 per cento del PIL, o addirittura al 3 per cento nel caso della Polonia, che ha varato un massiccio riarmo. Emblematico anche il caso della Germania, che ha stanziato un fondo speciale da 100 miliardi di euro per le proprie Forze armate.

Le indicazioni dal conflitto ucraino

Difficile prevedere quando e con quali esiti potrà avere termine la guerra che prese il via nel 2014 nella regione orientale del Donbass e che ha subito una rapida escalation dal 24 febbraio scorso, con l’intervento militare russo e il coinvolgimento indiretto degli Stati membri della NATO quali fornitori di massicci aiuti militari e programmi di addestramento alle truppe di Kiev. Dopo 5 mesi di combattimenti è possibile tracciare alcune indicazioni che questo conflitto fornisce all’Occidente e alle nazioni europee.

Benché i russi la considerino un’«operazione speciale», la campagna in atto può essere considerata la prima guerra convenzionale combattuta su vasta scala in Europa dalle ultime offensive alleate contro la Germania nazista nei primi mesi del 1945.

La penetrazione iniziale delle forze russe lungo tutto il confine orientale e settentrionale ucraino ha costituito un fronte di circa 1.500 chilometri, ridottosi poi a circa la metà dopo il ritiro russo dalle aree di Kiev, Cernihiv e Sumy e il concentramento delle forze nei settori del Donbass (Sud-Est), di Kherson/Mikolayv e Melitopol/Zaporizhzhia (Sud).

Le forze in campo vedono schierati fino a 180.000 militari russi affiancati da circa 50.000 combattenti delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk, contrapposti ad almeno 250.000 ucraini tra forze regolari, Guardia nazionale e milizie popolari arruolate per difendere i centri urbani. Un numero di forze in campo senza precedenti in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, anche per il numero di mezzi coinvolti nelle operazioni che comprendono migliaia di mezzi corazzati tra tank, cingolati da combattimento e blindati ruotati, centinaia di pezzi d’artiglieria campale tra obici e lanciarazzi multipli oltre a mortai, missili balistici, da crociera, anticarro e antiaerei e centinaia di aerei, elicotteri e droni.

Nulla di paragonabile neppure alle lunghe guerre balcaniche che insanguinarono la ex Jugoslavia negli anni Novanta e che furono per lo più conflitti a bassa intensità con alcune sporadiche battaglie più intense, se si escludono i 78 giorni di campagna aerea scatenata dalla NATO contro la Serbia nel 1999. Nulla a che vedere soprattutto con le guerre che hanno coinvolto negli ultimi 20 anni le nazioni occidentali in Iraq e Afghanistan, dove gli scontri sono stati per lo più asimmetrici e la quasi totalità degli scontri in Iraq e Afghanistan sono stati combattuti a livello di compagnia (spesso di plotone) contro poche decine o al massimo poche centinaia di insorti. In Ucraina, invece, manovrano e combattono intere brigate con azioni ad ampio respiro a livello di divisione se non di corpo d’armata, come nel caso dell’offensiva russa in Donbass.

Al tempo stesso, questa guerra va considerata anche un conflitto civile poiché parte della popolazione e dei combattenti ucraini sono schierati dalla parte di Mosca. Una ragione che spiega perché i russi nella prima fase del conflitto hanno puntato su un’azione militare ad ampio raggio. Operazione che aveva l’obiettivo di ridurre al minimo le perdite, barattando il ritiro delle forze di Mosca dai dintorni di Kiev con il ritiro delle truppe ucraine dal Donbass, abitato da una popolazione che nell’ottica russa deve essere liberata. Il fallimento dei colloqui russo-ucraini con la mediazione turca ha lasciato a Mosca la sola opzione militare per assumere il pieno controllo del Donbass e delle aree tra la Crimea e il fiume Dnepr.

Un aspetto rilevante e delicato, quello della guerra civile, che non può essere ignorato se si vuole cercare possibili via d’uscita e soprattutto comprendere la natura del conflitto, incluse le violenze su prigionieri e civili e le rappresaglie tipiche di ogni guerra di questo tipo. Non è un caso che l’uso del termine «guerra civile», come delle altre terminologie che non rispettano rigidamente il diktat della propaganda di Kiev sull’aggressione russa, è punito severamente dalle leggi di guerra ucraine. Tali norme hanno portato allo scioglimento di ben 12 partiti, incluso il secondo per voti ottenuti nelle ultime elezioni, per contrastare una narrazione «disfattista». Al tempo stesso, a Mosca è bandita la parola «guerra» poiché si tratta di un’«operazione speciale», tesa a liberare le popolazioni russe dell’Ucraina.

Comprensibile forse che Ucraina e Russia affrontino la guerra con una rigida censura a idee e opinioni. Altrettanto lecito sarebbe attendersi che in Europa non ci si allineasse alla «militanza», mantenendo una capacità politica e militare di analisi e comprensione degli eventi necessaria a fornire qualche possibilità di fermare un conflitto il cui prolungarsi è già (e domani lo sarà ancor di più) devastante per la sicurezza anche economica dell’Europa.

Più truppe

Alla luce degli sviluppi bellici, il primo elemento da prendere in considerazione in Europa è l’entità numerica delle forze armate, e in particolare degli eserciti, oggi presenti nel Vecchio continente e che sono stati stati numericamente sempre più ridotti. Forse nell’illusione che le sfide militari sarebbero state rappresentate da guerre asimmetriche contro guerriglieri e insorti, da contrastare con piccole unità a elevata mobilità.

I quattro maggiori eserciti del Vecchio continente (britannico, italiano, francese e tedesco) hanno ormai forze terrestri al di sotto degli 80.000 uomini effettivi, peraltro non tutti ovviamente impiegabili in prima linea. Gli altri Stati europei della NATO hanno invece eserciti ancora più contenuti, spesso di entità quasi «simbolica».

Se immaginiamo un conflitto convenzionale in cui dover avvicendare ogni due settimane i battaglioni in prima linea e ogni mese le brigate per assicurare loro un periodo di riposo nelle retrovie, è facile intuire che i più grandi eserciti europei non sarebbero in grado di impiegare in battaglia più di 10/15.000 militari contemporaneamente: una divisione su due o tre brigate. L’Esercito Italiano schiera 93 mila militari mentre i volontari in servizio permanente hanno un’età media di 39,8 anni e il 57% ne ha più di 40.

Recentemente il generale Mark Carleton-Smith, capo di stato maggiore dell’esercito britannico, in un’intervista rilasciata in maggio a “Soldier Magazine” ha ammesso che la guerra in Ucraina “ha messo in evidenza il fatto che la massa e le dimensioni contano”, confessando di non concordare con la decisione del governo di ridurre ulteriormente il British Army da 82.000 ad appena 73.000 militari. Il 18 giugno 2022, il successore di Carleton-Smith, il generale Patrick Sanders, ha affermato che il Regno Unito deve essere preparato a combattere in Europa ancora una volta, dopo le due guerre mondiali e lo schieramento in Germania, durante la Guerra Fredda, dell’Armata Britannica del Reno: “Siamo la generazione che deve essere pronta al fatto che l’esercito combatta di nuovo in Europa”.

Al di là dei proclami, eserciti con organici così limitati e privi di ampie riserve richiamabili e di strutture e armamenti in grado di ospitarli ed equipaggiarli possono risultare idonei a condurre campagne asimmetriche e a bassa intensità. Appaiono però del tutto inadeguati rispetto alle esigenze che emergono dal conflitto in Ucraina. Ciò impone una seria riflessione anche sulla necessità di disporre di una consistente Riserva, da mantenere addestrata con frequenti richiami e da mobilitare per rimpolpare i ranghi dei reparti, ripianare le perdite o creare nuove unità in caso di necessità.

La complessità tecnologica degli strumenti militari, armi ed equipaggiamenti, rende difficile credere di poter riuscire a trasformare in poche settimane un civile in un combattente, per di più specializzato come carrista o artigliere, come stanno facendo gli ucraini. L’esperienza dell’Esercito Italiano con i volontari in ferma breve (un anno) insegna che in 12 mesi si può addestrare un soldato, ma solo per compiti limitati e non di «guerra».

Questo significa che, in caso di conflitto aperto, occorrerà poter disporre di eserciti più numerosi di quelli attuali e con una riserva addestrata richiamabile e integrabile nei reparti esistenti o in nuove unità per operazioni militari dopo qualche settimana di amalgama e preparazione.

Più mezzi

Anche il numero di mezzi in dotazione alle Forze armate delle nazioni europee appare del tutto inadeguato a un conflitto convenzionale. Anche prendendo con le molle i dati forniti dai belligeranti sulle perdite inflitte al nemico è certo che, al di là della propaganda, le perdite sono state elevate su ambo i lati del fronte. Questo impone serie riflessioni all’Europa.

Le flotte di carri armati schierate da ognuno dei quattro principali eserciti europei prima citati sono comprese tra i 200 e i 330 tank (peraltro non tutti operativi) contro i 1.300 britannici e i 5.000 tedeschi in servizio durante la Guerra Fredda. Numeri di poco superiori sono riscontrabili per i veicoli da combattimento o per le artiglierie campali.

Andando a rileggere il “Military Balance” 1989-90, si rileva che l’Italia schierava 1.750 tank tra Leopard 1, M-60 e M-47 con 800 pezzi d’artiglieria da 105 e 155 mm. La Germania poteva contare su quasi 5.000 carri Leopard 1, Leopard 2 e M-48A5 con 1.300 pezzi d’artiglieria da 105, 155 e 203 mm. La Francia disponeva di 1.500 carri AMX-30 e AMX-13 e 850 obici da 105 e 155 mm. Il Regno Unito poteva invece mettere in campo 1320 tank Challenger e Chieftain e 550 artiglierie tra 105 e 203 mm di calibro.

Da un lato sarebbe impossibile oggi ristrutturare le forze armate europee sui modelli del periodo della Guerra Fredda, quando esisteva quasi ovunque la leva militare e le Forze armate erano organizzate per gestire ampie mobilitazioni. Dall’altro lato è però evidente che, con le attuali forze, la capacità operativa dei maggiori eserciti europei sarebbe limitata a poche settimane in un conflitto simile a quello combattuto nel Donbass. Con i ritmi di perdite e usura riscontrati, le unità corazzate e meccanizzate europee cesserebbero probabilmente di esistere nel giro di due settimane. I 150 carri armati Ariete e i circa 200 cingolati da combattimento Dardo dell’Esercito Italiano avrebbero ben poche speranze di sopravvivenza nel tipo di battaglie che si combattono nel Donbass.

Sul piano numerico, anche gli altri eserciti dei maggiori Paesi europei risulterebbero così limitati da non poter sostenere perdite e usura per molto tempo, pur tenendo conto che i mezzi corazzati occidentali sono più pesanti e meglio protetti degli omologhi impiegati dai russi.

Le stesse valutazioni possono essere estese anche all’artiglieria, presente ormai negli eserciti europei in numeri troppo limitati di obici trainati, semoventi e lanciarazzi campali multipli per sostenere un conflitto convenzionale anche solo per qualche mese. Occorre anche tener conto che le munizioni disponibili potrebbero esaurirsi in pochi giorni, visti i consumi rilevati nel conflitto ucraino e le scorte disponibili presso le forze armate europee.

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A conferma di questa situazione è sufficiente rilevare il dibattito accesosi in diversi Stati europei in cui i comandi militari hanno opposto resistenze alla volontà politica di cedere armi e munizioni agli ucraini, attingendoli dai reparti operativi.

Più munizioni

A metà maggio il rapporto della Commissione Difesa del Parlamento francese fece emergere chiaramente che le riserve di armi e munizioni sono del tutto inadeguate a far fronte a un conflitto come quello in atto in Ucraina.

Il senatore Christian Cambon, presidente della commissione, ha valutato che il numero di munizioni impiegate dall’esercito russo in un solo giorno di guerra in Ucraina equivale alle munizioni impiegate in un anno dall’Armée de Terre. Le scorte presenti consentirebbero all’esercito francese di sostenere per tre o quattro giorni un conflitto come quello in Ucraina. Ricostituire gli arsenali di munizioni, razzi e missili richiederebbe non meno di tre o quattro anni e una spesa di 6/7 miliardi di euro.

Meglio ricordare che le forze armate francesi sono forse quelle meglio equipaggiate e rifornite d’Europa. Quindi è lecito ipotizzare che per le altre «potenze» europee la situazione sia ancora più grave, come hanno evidenziato ad esempio negli ultimi anni rapporti parlamentari relativi alle forze armate tedesche. Il ministro della Difesa tedesco, Christine Lambrecht (SPD), ha stimato che aumentare le riserve di munizioni per renderle adeguate a un contesto bellico convenzionale costerà circa 20 miliardi di euro.

I report dal fronte anche a questo proposito impongono di chiedersi quanti eserciti europei dispongano di riserve di munizioni idonee a far fronte a un confronto del genere. Occorre però anche riflettere sulla necessità di addestrare le truppe europee a reggere lo stress di un fuoco infernale, prolungato e preciso sulle loro postazioni. Un tipo di addestramento che richiederebbe peraltro poligoni e aree addestrative di dimensioni estese, ormai rari da trovare in Europa.

Più velivoli

Sul piano aeronautico la situazione è ugualmente preoccupante, anche se molti aspetti restano da chiarire sul ruolo e i limiti del potere aereo espressi in questo conflitto in particolare dai russi.

Kiev ha affermato il 19 giugno di avere abbattuto 216 aerei, 180 elicotteri e 594 droni, mentre il bilancio di Mosca delle perdite inflitte agli ucraini registrava la distruzione al 9 giugno di 193 aerei, 130 elicotteri e ben 1.163 velivoli senza pilota. Pur considerando esagerate le perdite fornite dai bollettini russi e ucraini non è improbabile che in quattro mesi di guerra oltre un centinaio di aerei ed elicotteri russi e ucraini siano stati abbattuti (diversi altri danneggiati) insieme a un numero ancor maggiore di UAV/droni. Quanti Paesi europei potrebbero sostenere un simile tasso di perdite prima di esaurire l’intera disponibilità di velivoli, pezzi di ricambio o missili e munizioni per le armi imbarcate? Teniamo conto che negli ultimi anni l’adozione di velivoli molto costosi e sofisticati come gli F-35 ha permesso di rimpiazzare aerei più vecchi e «spendibili» in un rapporto di circa uno a tre.

Dopo i primi due mesi di guerra, l’Aeronautica ucraina ha potuto contare sulle scorte di pezzi di ricambio (e forse armi) per i caccia Mig 29 fornite da Slovacchia e Polonia. A fine maggio risultavano però quasi esaurite. L’impiego di aerei da combattimento in ambienti a forte presenza di sistemi di difesa aerea attivi a tutte le quote (inclusi S-300 e S-400 a lungo raggio) e di elicotteri da attacco impiegati in volo a bassa quota su campi di battaglia a forte presenza di sistemi antiaerei missilistici e d’artiglieria hanno comportato perdite considerevoli e un alto tasso di usura.

Discorso forse ancor più valido per i droni, rivelatisi utilissimi nei diversi compiti loro assegnati (sorveglianza, intelligence, ricognizione, lancio di armi e come munizioni circuitanti) ma anche molto vulnerabili ai sistemi di difesa aerea e anti-drone. È quindi necessario disporne in quantità rilevanti per sostenere un conflitto convenzionale prolungato.

Perdite sostenibili?

Le perdite in questo conflitto sono elevate. Migliaia di uomini uccisi, feriti e dispersi, anche tra gli ufficiali impegnati a ridosso della prima linea, fino al livello di comandanti di reggimento e di brigata. Perdite alte anche per i mezzi e i velivoli distrutti, danneggiati o usurati dall’impiego e dalle condizioni ambientali, come il fango che ha a lungo ostacolato le fasi iniziali dell’offensiva russa.

Difficile attribuire credibilità ai dati sulle perdite nemiche diffusi dai belligeranti, con ogni evidenza gonfiate dalla propaganda. In ogni caso, il numero di militari uccisi e feriti è di molte migliaia.

I servizi d’intelligence britannici hanno reso noto a fine maggio perdite russe superiori in tre mesi a quelle registrate in nove anni di guerra in Afghanistan, guerra asimmetrica in cui le perdite dell’Armata Rossa vennero stimate in circa 14.000 militari. Probabile che la stima di Londra sia esagerata, pur combaciando con quella del Pentagono che valutava in circa 15.000 i caduti russi, la metà di quanto sostenuto da Kiev. Numeri che in ogni caso possono apparire esagerati, tenuto conto che in un conflitto di tale intensità a ogni caduto corrispondono in media quattro o cinque feriti: difficile per Mosca poter continuare a combattere dopo aver perso 170-200.000 uomini (38.000 morti e 130-160.000 feriti) anche per le drammatiche ricadute sanitarie, sociali e politiche che sarebbero inevitabilmente legate a tali perdite. Se i caduti russi fossero anche «solo» 8.000 con circa 32-40.000 feriti occorre chiedersi se vi siano nazioni europee in grado di reggere sul piano politico e sociale perdite simili in appena tre mesi di guerra.

Il presidente Volodymyr Zelensky in giugno ammise che nella battaglia in atto nel Donbass le sue truppe registrano in media 100 caduti e 500 feriti al giorno: una media quindi di 3.000 caduti e 15.000 feriti al mese. Se il vertice politico ucraino ha ammesso simili perdite, con l’obiettivo di incentivare l’afflusso di aiuti militari da USA ed Europa, è lecito ritenere che le perdite reali sofferte dagli ucraini potessero essere ancora più elevate. Sempre in giugno il bilancio delle perdite venne portato è addirittura a 1.000 al giorno tra morti e feriti secondo David Arakhamia, uno tra i principali consiglieri di Zelensky.

La Defence Intelligence Agency statunitense stima che le perdite umane tra russi e ucraini possano essere circa equivalenti, ma ammette di non ricevere informazioni dettagliate da Kiev circa il numero di morti e feriti in battaglia. Si tratta in ogni caso di molte migliaia di caduti e un numero ben maggiore di feriti. Europei a parte, siamo certi che anche la superpotenza statunitense sia in grado di sopportare perdite analoghe in così pochi giorni?

Non dimentichiamoci che la NATO ha lasciato l’Afghanistan dopo aver subito circa 3.600 caduti in 20 anni (incluse le vittime di incidenti e suicidi), di cui 2.450 circa statunitensi. Secondo fonti militari russe nella battaglia di Severodonetsk alcuni reparti ucraini avrebbero sofferto perdite pari al 90 per cento degli effettivi. Da quanto risulta da appelli e video postati sui social media, battaglioni e brigate ucraine lamentano di essere stati lasciati in prima linea senza armi d’appoggio, senza ordini e con poche munizioni. Un segnale di come un conflitto convenzionale possa mettere a dura prova, usurandole, anche le catene logistiche e di comando e controllo, come confermerebbero anche le elevate perdite tra gli ufficiali.

Carenze già note

La guerra in Ucraina ha quindi messo in luce carenze nelle Forze armate europee che non sono certo nuove in termini di organici e dotazioni.

Già nel 2011, le operazioni aree contro le forze libiche fedeli a Muammar Gheddafi videro dopo poche settimane il ritiro della componente statunitense che lasciò agli alleati europei il compito di completare l’opera. La NATO impiegò ben sette mesi (da marzo a ottobre) per avere ragione delle ben poco consistenti forze libiche. Ma già nella tarda primavera gli europei dovettero chiedere aiuto agli USA per fornire bombe d’aereo perché i magazzini si erano rapidamente svuotati. E si trattava di in un conflitto a intensità certo bassa, dove ogni aeronautica metteva in campo non più di 6-12 aerei da combattimento. L’imbarazzante situazione determinò reazioni sbalordite al Pentagono, dove in molti si chiesero quale tipo di guerra si preparassero a combattere gli europei.

Nel novembre 2020 l’allora Capo di Stato Maggiore della Difesa italiano, generale Enzo Vecciarelli, evidenziò in un’audizione l’inadeguatezza di mezzi, sistemi a disposizione e organizzazione già nel caso di scenari militari a bassa intensità. All’epoca la relazione del generale Vecciarelli mise in luce come le nostre Forze armate (e con esse molte  europee) non sarebbero state in grado di affrontare con efficacia un conflitto come quello tra azeri e armeni nel Nagorno-Karabakh nel secondo semestre del 2020, una guerra caratterizzata da un elevato impiego di missili balistici, munizioni circuitanti e droni armati.

Oggi, con l’aumento di intensità, si concretizzerebbero immediatamente limiti strutturali. Non ultimo il fatto che i nostri sistemi d’arma potrebbero sostenere la richiesta solo per pochi giorni. Senza parlare dell’assenza di dispositivi adeguati per rispondere alla minaccia di missili balistici e ipersonici, alla luce del fatto che il conflitto ucraino ha visto il battesimo del fuoco dei missili ipersonici russi Kinzhal.

Da mesi in Europa si dibatte intorno alle carenze emerse nell’apparato militare russo. Va però tenuto conto che negli ultimi 77 anni nessuno in Europa aveva combattuto un conflitto convenzionale. E nessuna forza armata europea e forse occidentale sembrerebbe oggi in grado di sostenerlo sul piano militare e neppure su quello politico e sociale.

Se il confronto con la Russia ci impone già ora disastro economico, razionamento energetico e forse alimentare, siamo davvero certi che i popoli europei siano pronti a vivere di “pane e cipolle” per i prossimi anni per perseguire l’obiettivo indicato dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, ossia quello di “sconfiggere la Russia”?

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Giornalista e saggista esperto di storia, guerra e strategia, è direttore di "Analisi Difesa". Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del Ministro dell’Interno.