di Lorenzo Bernasconi

L’Afghanistan è di nuovo dei talebani: in questo torrido ferragosto basta allargare lo sguardo oltre i nostri confini per comprendere come il covid e il cambiamento climatico non siano certo le uniche minacce che incombano sul nostro mondo.

Chi oggi abbia più di trent’anni certamente ricorderà le immagini dell’invasione dell’Afghanistan, con la guerra che per la prima volta andava in scena in diretta sui nostri teleschermi: sono trascorsi vent’anni, due decenni di presenza militare in Afghanistan che, tuttavia, non sono serviti a stabilizzare il Paese, né a eliminare una volta per tutte la piaga dei talebani.

Gli 88 miliardi di dollari investiti nella formazione e nell’equipaggiamento delle forze di sicurezza afghane si sono dispersi in mille rivoli, forse in parte inghiottiti dal vortice della corruzione, assai diffusa e considerata pressoché normale nella cultura del posto; quel che è certo è che, a pochi mesi dall’inizio del disimpegno delle truppe NATO, l’esercito afghano si è praticamente dissolto di fronte all’avanzata dei talebani, opponendo poca o nulla resistenza.

Nemmeno Biden, d’altronde, sembrava nutrire grande fiducia in quel che rimaneva delle forze armate locali – addestrate e finanziate dagli USA per due decadi – se ancor prima delle caduta della capitale ha ritenuto necessario ordinare l’evacuazione degli statunitensi presenti nel Paese, diplomatici inclusi, e inviare a Kabul in tutta fretta tremila militari USA per proteggerli in attesa che l’evacuazione sia completata.

Al di là di quella che, sul piano militare, è indiscutibilmente una sconfitta, al di là degli anni persi, delle vite umane sacrificate per nulla, delle risorse investite per ricostruire un Paese che oggi viene abbandonato al caos e alla mercé degli stessi assassini che ci si proponeva di debellare vent’anni fa, quello che appare sconvolgente è la mancanza di reazione dell’opinione pubblica occidentale.

Se c’è una lezione che avremmo dovuto imparare dalla pandemia di COVID-19, è che nel mondo globalizzato anche i problemi diventano inevitabilmente globali: è impensabile, oggi, che i seimila chilometri che ci separano da Kabul possano tenerci al riparo dalle conseguenze del ritorno dei talebani al potere. L’Afghanistan appare destinato a trasformarsi in una fucina di terroristi islamici, sebbene ciò sembri sfuggire alla stragrande maggioranza dei nostri connazionali, e degli occidentali in generale.

Incapaci di guardare al di là dei nostri confini, convinti che settant’anni di relativa pace giustifichino l’irrazionale convinzione secondo cui la guerra sarebbe stata ormai bandita definitivamente dal continente europeo, continuiamo a esibirci sui social in improbabili pose da influencer, tra costumi, aperitivi e grigliate, mentre l’Afghanistan brucia; mentre i civili, inclusi donne e bambini, cadono sotto i colpi dei kalashnikov dei talebani, i quali, detto per inciso, dispongono di una quantità impressionante di armi leggere la cui provenienza non è mai stata del tutto chiarita, sebbene tra i principali sospetti, secondo fonti USA, figurino l’Iran e la Russia, la quale ha peraltro sempre negato ogni coinvolgimento.

I nuovi padroni dell’Afghanistan festeggiano la sconfitta dell’Occidente e si preparano ad addestrare migliaia di giovani combattenti, parte dei quali andrà ad ingrossare le fila delle tante cellule terroristiche presenti nelle nostre città. Gli attentati di Londra, Parigi, Bruxelles, Madrid, Berlino, Vienna (la lista potrebbe continuare a lungo) hanno dimostrato quanto fragili siano le nostre società davanti alla violenza cieca del terrorismo islamico: almeno per questo, se non per solidarietà con il popolo afghano, dovremmo impedire ad ogni costo la costituzione di questo nuovo Emirato, destinato a rappresentare un porto sicuro e un centro di addestramento per gli estremisti islamici di mezzo mondo.

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Purtroppo la politica occidentale, a partire dal presidente Biden, ha dimostrato di volersene lavare le mani. Sarebbe però ingeneroso attribuire la colpa di questa improvvida ritirata alla sola politica, giacché essa si nutre pur sempre del consenso, ed è innegabile come buona parte della popolazione europea e americana ormai sia da anni contraria al proseguimento dell’impegno militare in Afghanistan, rivelatosi estremamente oneroso sul piano economico e foriero di tanti lutti tra i militari e tra il personale civile.

Quello che l’opinione pubblica non sembra oggi in grado di capire è che i talebani non si accontenteranno della riconquista dell’Afghanistan; come altri gruppi affini, e a differenza di noi europei, sono guidati da ideali forti (sbagliatissimi a mio avviso, ma innegabilmente forti) e da una visione del mondo estremamente chiara. Ambiscono a proiettare la propria influenza ben al di là del territorio afgano e, sebbene non siano certo in grado, al momento, di competere coi moderni eserciti dei Paesi occidentali in una guerra aperta, conoscono benissimo i punti deboli dell’Occidente e non si faranno scrupoli a dare il proprio macabro contributo alla scia di sangue che altre organizzazioni terroristiche come Al Qaeda, ISIS e Hamas stanno spargendo per il mondo, Europa inclusa, in nome di Allah.

Kabul sta per cadere, nella Francia della laïcité le chiese bruciano e i preti vengono sgozzati da immigrati islamici, ma noi europei sembriamo ormai incapaci di comprendere ciò che accade o forse, più semplicemente, non ci interessa: allora tutti in spiaggia e a fare l’aperitivo, finché ci è concesso. Finché l’autunno e la prevedibile risalita dei contagi non indurranno il governo a chiudere, o finché non scoppierà un’altra bomba in qualche capitale europea, facendoci ripiombare nella paura (e rispolverare gessetti colorati e bandiere della pace). Intanto, a Kabul, si continua a morire.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.