di Giovanni Giacalone

La crisi tra Italia ed Emirati è seria e rischia di costare molto caro al nostro Paese, sia sul piano politico-strategico, sia su quello economico. Dopo lo spazio aereo negato dagli emiratini al Boeing 767 dell’aeronautica militare italiana che trasportava i giornalisti a Herat per assistere alla cerimonia dell’ammainabandiera a Camp Arena, ora è la base militare italiana di al-Minhad ad essere a rischio.

Lo scorso 11 giugno infatti l’agenzia “LaPresse”, rifacendosi a fonti anonime della Farnesina, aveva indicato come certa l’intimazione di sfratto dalla base degli Emirati fatta agli italiani; notizia confermata dal Ministero della Difesa che ha parlato di rischio concreto e di iniziative per scongiurarlo. Come illustrato da Fausto Biloslavo, la base di al-Minhad è di grande importanza strategica per le missioni italiane all’estero e la sua chiusura renderebbe molto più complicato e dispendioso anche l’imminente ritiro dall’Afghanistan, visto che ogni volo costerebbe a Roma circa 50mila euro in più e parecchi giorni aggiuntivi di navigazione.

L’unica soluzione possibile all’orizzonte è quella di rafforzare la cooperazione in ambito militare tra Italia ed Emirati, ma per fare ciò è necessario arginare quella parte politica e dell’intelligence che punta all’affiancamento con Qatar e Turchia, Paesi che tra l’altro finanziano ed esportano jihadisti e sostengono l’organizzazione islamista radicale dei Fratelli Musulmani. Una posizione che nel novembre del 2020 era plausibilmente costata all’Italia l’esclusione da un summit anti-terrorismo al quale avevano partecipato Francia, Austria, Olanda e Germania.

Gli Emirati hanno le loro ragioni per essere inalberati con Roma, da ricollegarsi a una serie di infelici posizioni di politica estera tenute dall’Italia, su spinta del M5S, Leu e parte del PD (come dimenticare lo slogan “Siamo tutti Fratelli Musulmani” lanciato a suo tempo dalla Quartapelle?); in primis la decisione, presa ad inizio anno dal Governo allora guidato da Giuseppe Conte, di interrompere la vendita di armi ad Emirati e Arabia Saudita a causa della loro partecipazione alla guerra in Yemen. Una decisione più ideologica che altro, visto che va contro l’interesse nazionale dell’Italia, sia sul piano strategico sia su quello economico. Attenzione poi, perché emiratini e sauditi stanno combattendo in Yemen a sostegno del governo internazionalmente riconosciuto di Abd-Rabbu Mansour Hadi e contro gli Houthi, i separatisti sciiti finanziati e sostenuti dall’Iran, esattamente come nel caso di Hamas e Hizbullah. L’Italia non si è però fatta alcun problema ad armare il Qatar, Paese che, come già detto, è noto per il suo sostegno all’Islam radicale e da dove pontificava anche il predicatore estremista Yusuf Qaradawi, leader spirituale della Fratellanza. Non dimentichiamo poi che in Libia l’Italia è schierata a fianco del governo-fantoccio di Ankara a Tripoli, assieme al Qatar, e, secondo informazioni dell’Africom, gli ha anche fornito supporto di intelligence, mentre Egitto ed Emirati sono schierati con Haftar.

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Grazie alle linee prettamente ideologiche dettate da Di Maio e compagni, l’Italia rischia di pagare un carissimo prezzo e bisognerà lavorare in fretta se si vuole evitare il disastro.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Laureato in Sociologia (Università di Bologna), Master in “Islamic Studies” (Trinity Saint David University of Wales), specializzazione in “Terrorism and Counter-Terrorism” (International Counter-Terrorism Institute di Herzliya, Israele). È analista senior per il britannico Islamic Theology of Counter Terrorism-ITCT, l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (Università Cattolica di Milano) e il Kedisa-Center for International Strategic Analysis. Docente in ambito sicurezza per security manager, forze dell’ordine e corsi post-laurea, è stato coordinatore per l’Italia del progetto europeo Globsec “From criminals to terrorists and back” ed è co-fondatore di Sec-Ter- Security and Terrorism Observation and Analysis Group.