di Daniele Scalea

Il titolo di quest’articolo si rifà a un celebre libro sulla rivoluzione bolscevica: et pour cause, anche se da una certa prospettiva ciò di cui parleremo potrebbe assomigliare più a una restaurazione.

Il 5 e il 6 gennaio sono avvenute due cose molto importanti negli USA. Il 5 gennaio i ballottaggi in Georgia hanno visto entrambi i candidati uscenti, repubblicani, sconfitti: i democratici controlleranno dunque anche il Senato. Il 6 gennaio, invece, il Congresso ha definitivamente riconosciuto l’elezione a presidente di Joe Biden, mentre alcuni facinorosi pro-Trump hanno assaltato e vandalizzato il Campidoglio, sede del Congresso.
Procediamo in ordine cronologico.

Come scrivemmo all’indomani delle elezioni del 4 novembre, malgrado la vittoria di Biden su Trump il quadro non era troppo fosco per i repubblicani. Il Presidente era stato sconfitto solo di misura e col sospetto di brogli, a dispetto di sondaggi e media che prevedevano una “ondata blu” a favore di Biden. Au contraire, i democratici avevano persino perso terreno alla Camera (per la quale si voterà ancora nel 2022) e apparivano lontani dal conquistare il Senato. Come successo per le elezioni presidenziali, anche in quelle senatoriali il lento stillicidio di nuovi blocchi di schede pro-dem, che spuntavano fuori in tutte le lotte più serrate, hanno finito per rendere decisivi i due ballottaggi in Georgia. Stato tradizionalmente “rosso” (ossia repubblicano).

Ma queste elezioni hanno sconvolto molte tradizioni consolidate (basti pensare che Trump ha vinto in tutti gli Stati e quasi tutte le contee “tornasole”, ossia quelle che normalmente sono usate per prevedere il vincitore nazionale) e, il 5 gennaio, anche la Georgia non è stata da meno eleggendo due senatori democratici. Il conto è dunque di 50 senatori dem e 50 repubblicani, equilibrio rotto dal voto decisivo della vice-presidente (che negli Usa è anche presidente del Senato) Kamala Harris.

I democratici hanno cioè realizzato la trifecta: fra poche settimane controlleranno Casa Bianca, Camera e Senato. Il che gli permette anche l’assalto all’ultimo potere federale fuori dal loro controllo: la Corte Suprema (dove la maggioranza dei membri è attualmente di nomina repubblicana). Se il partito fosse compatto, infatti, avrebbero i numeri per realizzarne il cosiddetto packing: ossia aumentare il numero dei giudici arbitrariamente, permettendo a Biden di nominarne quanti bastano per tingere di blu anche questa quarta istituzione. Si tratterebbe d’una scelta inaudita, che persino Franklin Delano Roosevelt osò solo immaginare ma non realizzare; eppure molti esponenti dem l’hanno invocata prima delle elezioni e sia Biden sia la Harris, a specifica domanda, hanno sempre rifiutato di escludere tale possibilità. I media, per quel che si è visto, fornirebbero sostegno. Un altro progetto che solletica le fantasie più sfrenate del Partito Democratico è l’elevazione a Stato federale di Washington D.C., mossa che renderebbe più semplice conservare la maggioranza del Senato in futuro. Infine, la prevalenza alla camera alta rende più semplice la scelta di ministri, giudici e altri funzionari, che non potranno più essere silurati dai repubblicani.

In sostanza, avere anche il controllo del Senato offre ai democratici tutte le opzioni più radicali. Al che si presentano due scenari:

  1. Joe Biden e la corrente centrista del Partito esercitano comunque auto-controllo, perseguendo politiche moderate che possano piacere anche a una parte di coloro che non li votano. La sua amministrazione assomiglierà allora a quella di Obama, con una certa dose di riformismo sociale, l’adesione formale all’ideologia progressista che si tradurrà cautamente in azione, una politica estera ispirata al multilateralismo e al principio del leading from behind, meno bellicista di quella di Bush ma comunque prona a goffi avventurismi stile “Primavera araba”. Questo è sicuramente lo scenario più gradito all’establishment del Partito.
  2. Vista la debolezza dei contrappesi, e alimentandosi della bellicosa narrativa sfruttata contro Trump, l’umore radicaleggiante della base prorompe nei palazzi del potere. Potremo allora aspettarci un governo più ideologico, che cerca d’imporre una stretta di sapore totalitario al Paese, in una logica “punitiva” verso la controparte (censura, persecuzione giudiziaria, iniziative esecutive e legislative “estreme” sui temi più divisivi come aborto, armi, gender, immigrazione ecc.). Paradossalmente in politica estera ciò potrebbe portare ad un atteggiamento generalmente più pacifista, compensato però da una crociata ideologica contro la Russia di Putin e la Destra populista in Europa.

Veniamo al secondo evento, che potrebbe anche aiutare a prevedere quale dei due suddetti scenari si verificherà.

La certificazione della vittoria di Biden da parte del Congresso chiude definitivamente la tribolata questione delle elezioni del 4 novembre. Anche Trump ne ha finalmente preso atto, dichiarando che il 20 gennaio “ci sarà una transizione ordinata”. I brogli denunciati dal Presidente uscente sono tutt’altro che incredibili, come sostengono i media (le anomalie, stranezze ed irregolarità abbondano), ma lontano dall’essere provati in maniera certa e lampante, come invece credono i suoi sostenitori più incalliti. I vari ricorsi di Trump si sono infatti tutti inabissati sugli scogli dei tribunali, anche ad opera di giudici di nomina repubblicana – non ultima quella Corte Suprema di cui egli ha nominato tre membri su nove.

Trump aveva ed ha tutto il diritto di denunciare le irregolarità nel voto, di presentare ricorsi legali e indire manifestazioni. Ciò si è inscritto plausibilmente anche in una strategia volta a preparare il terreno per un nuova candidatura nel 2024, per sé o per un suo favorito, mantenendo l’aura di “imbattuto” e costringendo i membri del Partito Repubblicano a schierarsi con lui o ad apparire dei traditori. Anche ciò è lecito e qualcuno potrebbe considerarla una brillante strategia politica. Il problema è che Trump si è spinto troppo oltre, tentando un azzardo di troppo – vuoi perché ingenuamente convinto di poter davvero ribaltare il risultato del 4 novembre, vuoi perché deciso a massimizzare i dividendi che la strategia scelta poteva conferirgli.

Un errore è stato quello di dare troppo spazio ad avventurieri come Lin Wood (le cui ultime uscite incitavano niente meno che all’esecuzione del vice-presidente Mike Pence per alto tradimento) e Sidney Powell, che ha a lungo promesso di rilasciare un “Kraken” giudiziario mai materializzatosi. L’azzardo estremo è stato spingere, ieri, i suoi sostenitori affluiti in massa a Washington a marciare sul Campidoglio, fomentandoli con la retorica del “oggi è il 1776”, illudendoli che con le loro azioni potessero ancora cambiare il corso degli eventi. Trump, sia chiaro, non ha chiesto ai suoi sostenitori di invadere e vandalizzare il Campidoglio, ma si è esposto consapevolmente al rischio di incidenti, purtroppo poi avvenuti. La grande marcia popolare del 6 gennaio, che doveva certificarne la leadership sui repubblicani mentre al Congresso si certificava la presidenza di Biden, si è tramutata in un boomerang.

Innanzi tutto, molti membri repubblicani del Congresso, che erano pronti a obiettare e votare contro la certificazione del voto negli Stati contestati, non l’hanno più fatto per dissociarsi dalle violenze dei manifestanti. Trump ha incassato un coro di critiche da molti esponenti del GOP (il Partito Repubblicano), proprio nel giorno in cui a dover passare sotto le forche caudine era Mitch McConnell, il capofila dell’ala “moderata” a lui avversa, colpevole della sconfitta elettorale in Georgia.

I media e i commentatori mainstream, lo sappiamo, sono spesso ipocriti e falsi. Dopo aver condonato (se non incitato) per mesi le violenze di Antifa e BLM, dopo aver delegittimato per anni il Presidente con teorie della cospirazione, di colpo hanno riscoperto la sacralità delle istituzioni e lo spirito di unità nazionale. La loro ipocrisia non toglie il fatto che, con l’irruzione al Campidoglio, si siano fornite molte munizioni al fuoco di sbarramento propagandistico. Trump sarà ancor più trattato come un sedizioso e un paria: nelle ultime ore qualcuno ha incominciato a dimettersi dalla sua Amministrazione, per dissociarsene in extremis. C’è il rischio che siano intraprese misure repressive contro di lui e i suoi sostenitori.

Gli eventi del 6 gennaio, però, indeboliscono Trump anche agli occhi di molti seguaci. Egli ha lungamente promesso che sarebbe riuscito a mantenere la presidenza, malgrado il risultato elettorale. Ieri, dopo che quattro suoi sostenitori sono morti nell’inutile e scellerata azione al Campidoglio, ha alzato bandiera bianca. Per molti la disillusione sarà forte, e per rendersi conto che serpeggia un certo malumore basta farsi un giro sui siti delle testate conservatrici o leggere i tweet dei commentatori di destra. I tweet che forse non leggeremo più sono invece quelli di Trump. Gli eventi hanno offerto il pretesto agli oligopolisti del web, che da tempo remano contro Trump, di realizzare il deplatforming cui già stavano pensando: il Presidente uscente è ora bloccato su Facebook, Twitter e Instagram e rischia un bando permanente da quei social network cui deve molto del suo successo.

Ciò non significa che Trump sia finito: nella sua lunga e multiforme carriera ha dimostrato di possedere risorse inaspettate e sapersi cacciare da ogni vicolo cieco. Tanto meno è finito il “trumpismo”, ossia quell’unione di “conservatorismo sociale” e “populismo economico” su cui ha rifondato un Partito Repubblicano che sembrava morente nei miasmi dello zombie reaganism (l’applicazione pedissequa di ricette degli anni ’80 alla mutata società odierna). Ma da oggi è più plausibile che emerga, da qui al 2024, un nuovo interprete del trumpismo, diverso da Donald Trump o uno dei suoi familiari, ma comunque capace di prendere le redini del GOP.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

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Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.