di Marco Malaguti

Nell’ultimo scritto, abbiamo descritto come il processo di progressiva relativizzazione del discorso politico e filosofico abbia condotto, in ultima istanza, alla preponderante posizione egemonica del linguaggio rispetto alle categorie oggettive del passato. Per chi volesse cominciare a tracciare un albero genealogico del pensiero che orienta la nostra contemporaneità, la fase che stiamo ora trattando è quella in cui i vari rami cominciano a convergere in un’unico tronco.

Abbiamo visto come gli intellettuali di estrazione marxista della scuola di Francoforte cominciassero, tramite Herbert Marcuse, a convergere su posizioni che sebbene non fossero postmoderne, almeno ne gettavano le basi, mentre al contempo il liberalismo di Karl Popper convergeva, col suo principio di falsificabilità, nelle stesse premesse di distruzione del discorso costruttivista (un argomento condiviso anche da altri liberali come Von Mises). È in questo momento di convergenza che parlare di “marxismo culturale” comincia a diventare poco appropriato.

L’innesto della filosofia di Popper, pensatore ferocemente antimarxista ed antipsicanalitico, sconfesserebbe in maniera molto forte il contemporaneo che volesse dipingere come “francofortese” il pensiero oggi dominante. Era evidentemente nato qualcosa di nuovo, ma mancava ancora un contributo fondamentale. Se i francofortesi avevano portato nel discorso moderno l’eredità marxista dell’analisi sociale sottoposta a criteri economici e materialistici, e se Popper vi aveva portato il lascito classicamente liberale del rifiuto al costruttivismo sociale dei Marx e dei Freud, al pensiero dominante della contemporaneità mancava ancora un elemento fondamentale al suo dispiegarsi: l’apparato mitico. Ma se alla modernità mancava un mito sarebbe stato difficile costruirne uno appellandosi alla scienza economica marxista od al relativismo liberale di Popper. Il terzo rivo che andò a convergere nell’estuario del pensiero moderno fu quindi quello di quei postmoderni, che ben avevano appreso la lezione di Lyotard, e che si occuparono di rivalutare un grande filosofo, prima di allora molto detestato a sinistra: Nietzsche.

Con la sua rivalutazione del dio veniente, incarnato dall’archetipo dionisiaco, e la sua riabilitazione del concetto di mito, Friedrich Nietzsche ben si confaceva all’idea di critica della ragione strumentale che animava sia i francofortesi sia i liberali classici. Non da ultimo, il patrimonio filosofico nietzscheano faceva suoi, pur diversificandosene, tutti gli stilemi estetizzanti della vecchia filosofia romantica (da Schiller a Schlegel), fino ad allora rimasti assoluto dominio del pensiero filosofico delle destre nazionaliste.

La figura di Dioniso, dio assente ma veniente, che tornerà liberandosi e ringiovanendo il mondo tramite la sua ebbrezza e follia, si accordava con il primato dell’esperienza estetica rispetto a quello della ragione calcolante. Nella normalità che si infrange, per Nietzsche, si ha, come riportato da Octavio Paz, la soddisfazione del “desiderio ardente della vera presenza”1. L’importanza del desiderio di estasi e liberazione dagli impulsi repressivi come modalità capace di liberare a un tempo sia della pericolosa razionalità sia dagli stilemi familiari che riproducevano la forma mentis microfascista e conservatrice, fu acutamente notata da molti filosofi postmoderni assai popolari negli anni della contestazione, anni di circolazione di musica psichedelica e droghe, tra cui quel Georges Bataille e quel Michel Foucault che diventeranno figure chiave (postumamente, nel caso di Bataille), del postmodernismo.

La prospettiva di una ragione che da sè era evoluta in un autosuperamento, arrivando alla glorificazione estatica del momento del godimento, ben si accordò con l’esplosione, in Europa Occidentale e negli Stati Uniti, del benessere su vasta scala che rendeva facile l’esperienza estatica (anche tramite droghe) pur mantenendosi placidamente al cospetto delle grandi sovrastrutture capitalistiche. Il mito andava dunque trasponendosi dal lontano mondo arcaico presocratico, sognato da Heidegger, al piano ferocemente contemporaneo, ignaro di passato e futuro, dell’esperienza estatica e sessuale dei postmoderni, tagliando così radicalmente i ponti sia con la vecchia destra nazionalista, sconfitta in guerra, sia con il vecchio materialismo di Marx, il cui materialismo dialettico sovietico, all’epoca ancora vivo ad oriente della cortina di ferro, non entusiasmava già più i giovani neobenestanti dell’Occidente capitalista. Si verificava quindi la temuta rivincita del mito, intravista foscamente da Adorno ed Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo: la razionalità dei Lumi cominciava a divorare sè stessa.

La contemporaneità aveva dunque trovato un costrutto ideologico perfetto, che combinava la critica agli elementi razionali dei totalitarismi sconfitti (fascismo e nazionalsocialismo) e da sconfiggere (socialismo sovietico) con un liberalismo popperiano che non metteva assolutamente in discussione l’orientamento capitalistico della società2. A ciò si andava ad aggiungere anche il mito, radicalmente contemporaneo (il primo mito “attuale” del passato), dell’estasi dionisiaca da vivere giorno per giorno, a cui avevano contribuito i postmoderni.

L’Occidente poteva dirsi in una botte di ferro, e la vittoria contro le altre correnti politiche che si erano sedute al tavolo di Jalta, il conservatorismo ed il socialismo sovietico, si era consumata sulle scrivanie dei filosofi prima ancora che sui campi di battaglia. La resa di ciò che rimaneva dei sistemi sconfitti sarebbe stata questione soltanto di qualche decennio.

1 J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, pag. 97, ed. Laterza 2020

2 Karl Popper era stimato membro della Mont Pelerin Society, think tank tutt’ora esistente che raduna i più importanti filosofi ed economisti neoliberali, e punto di riferimento economico sia per Ronald Reagan che per Margareth Thatcher. Vedi AA.VV, “Rivista Italiana di Politica” n°01/2019, Un collettivo intellettuale? Diversità e conflitti nella prima Mont Pelerin Society, Jeremy Shearmur, pag. 160-161-162-163, edizioni Rubbettino.

Marco Malaguti
+ post

Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.

LEGGI ANCHE
Romantici senza Romanticismo: perché alla destra serve una nuova narrazione