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Il trait d’union tra la filosofia postmoderna, nella quale la società odierna è letteralmente inzuppata, e l’origine culturalmente marxista della Scuola di Francoforte è senza dubbio di natura e matrice psicanalitica; per comprenderla è necessario calarsi in maniera profonda nella realtà dell’Europa germanofona del primo dopoguerra, un contesto nel quale le tesi di Sigmund Freud sulla repressione pulsionale animavano i salotti non meno di quelle di Marx a proposito dell’alienazione come fattore repressivo della classe operaia e dell’umanità in genere. Col tempo, una sovrapposizione ed una commistione tra i due ambiti fu inevitabile, e di questa commistione i principali artefici furono esattamente i Francofortesi, in particolare lo psicanalista Erich Fromm.

Nei [Manoscritti economico-filosofici del 1844], Marx aveva annotato come “la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose” descrivendo tale processo come “estraniazione”1. L’idea di una merce, creata dall’operaio stesso, che finisce per schiavizzare il suo creatore, che tanto più si disumanizza quanto più le dedica tempo ed energie, ebbe una presa radicale su Fromm e in generale su tutti i Francofortesi, i quali però, come già ricordato, spostarono ulteriormente l’asticella della critica, da solo economica che era, contro l’intera impalcatura sociale. L’alienazione del lavoro non era l’unica estraniazione al quale l’uomo era soggetto, ne esistevano altre, a cominciare da quella sociale indotta dall’autoritarismo, che costringeva l’uomo a vivere in un contesto tanto più “patologico” quanto più potere egli concedeva alle autorità, fossero esse statali, ecclesiastiche, familiari o di qualsiasi tipo. Tale condizione patologica era il masochismo, cui Fromm dedicò il suo scritto Masochismo e Autorità nel 1936.

Nello scritto, Fromm lamenta come la scienza del suo tempo dedicasse poco spazio agli studi sul masochismo, dedicandosi esclusivamente alla punta dell’iceberg delle patologie più gravi, trascurando le forme più lievi, che invece sarebbero diffuse a livello massivo nelle popolazioni, a causa di ben precise condizioni storiche indotte. Per Fromm sussiste un do-ut-des tra l’autorità, al contempo feroce e dispensatrice di piacere, e la collettività sottomessa. Nel rapporto tra autorità e sottomessi l’individuo, soppresso giuridicamente, trova appagamento nel far parte di una comunità indistinta, rifiutando la propria felicità per rivestirsi di quella comunitaria. Il rapporto, in Fromm, è estremamente ambivalente, poiché l’odio che comunque nasce per l’autorità che schiaccia, viene via via deviato verso categorie svantaggiate o indifese, che hanno l’unico ruolo di “depuratore” della frustrazione generale.

In Fromm, l’Autorità, per assolversi dagli accidenti della quotidianità, trasla sciagure e difficoltà in un piano non verificabile, nel quale la vita è dominata da oscure potenze, il cui maglio va affrontato con coraggio, e la sopportazione del quale è carattere di virtù. Fromm traccia una linea tra le personalità masochiste, coloro per le quali è nobile sopportare stoicamente gli accidenti, e quelle “rivoluzionarie”, ossia coloro che invece si propongono di eliminarli, o quantomeno discuterli. L’alveo naturale per la personalità autoritaria sarebbe, chiaramente, la famiglia. È la famiglia patriarcale, ovvero il modello sociale di gran lunga più diffuso, il principale incubatore dell’autoritarismo: in essa, secondo lo psicanalista, la felicità non viene ricercata nella ricerca del piacere personale ed empatico, ma solo nella risposta positiva alle aspettative paterne. Tale processo sarebbe poi replicato su vasta scala dalle altre istituzioni, dalla Chiesa allo Stato.

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Il problema dell’autoritarismo non era dunque solo economico, come per Marx, ma era eminentemente psicanalitico e sociologico. Da lì la necessità imprescindibile di portare l’attacco al cuore dell’istituzione familiare: il padre, che sarà il grande bersaglio della contestazione del 1968. Nello schema della famiglia patriarcale infatti, “l’unica via verso un sentimento di giustificazione della propria felicità e del desiderio d’amore conduce all’adempimento del dovere e all’obbedienza nei riguardi dell’autorità. Questa si presenta pertanto come la via per legittimare l’esigenza di un minimo d’amore e felicità. La soddisfazione del capo è l’unica prova efficace del dovere compiuto e, insieme, della legittimità delle proprie esigenze vitali, in particolare quella di essere amati”2. Lo schema paterno di ambivalenza che oscilla tra affetto e autorità sanzionatoria sarebbe stato fondamentale, per Fromm, nel plasmare la medesima ambiguità a livello sociale: lo Stato autoritario (ma non solo), è infatti sempre rivestito sia di attributi amorevoli (stato sociale, protezione ecc.) sia di attributi di ferocia (forze armate, pena di morte). Tale ambivalenza è fondamentale, in quanto nella sintesi di essa si esplicita la natura morale del potere, che nella visione del sottomesso è costretto ad essere tale per il suo bene.

Nella visione di Fromm la famiglia ha un ruolo precipuo nella creazione di un’idea di potere morale. Il bambino infatti si abitua a considerare i genitori come individui integerrimi, eroici e indiscutibili, ed a soddisfarli in quanto tali. Il trauma della crescita, che passa anche attraverso il riconoscimento della natura “umana” e “debole” dei genitori, non fa che traslare l’aura di eroicità e indiscutibilità, e dunque di moralità, dal piano dell’autorità familiare a quella dell’autorità sociale per antonomasia: lo Stato, il Führer. Di qui l’esigenza, individuata da Fromm, di ribaltare l’intera struttura familiare, lanciando la sfida di una pedagogia del futuro la quale “si pone esclusivamente al servizio dello sviluppo del bambino”, per attuarne “l’evoluzione della sua personalità complessiva”.

Con questa dichiarazione di guerra cominciava, nel 1936, la detronizzazione del padre.


Marco Malaguti è animatore di Progetto Prometeo.

1 K.Marx, [Manoscritti economico-filosofici del 1844], a cura di Norberto Bobbio, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2004, pag. 68.

2La Scuola di Francoforte, la storia ed i testi”, a cura di Enrico Donaggio, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2005, pag. 108.

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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.