Solo una settimana e mezzo fa le prospettive di Joe Biden erano scurissime: le deludenti prestazioni ai dibattiti televisivi e l’Ucrainagate ne avevano appannato l’immagine; in Iowa, New Hampshire e pure in Nevada i risultati elettorali erano negativi; Sanders lo aveva sopravanzato nei sondaggi nazionali e una schiera di aitanti centristi (Bloomberg, Buttigieg, Klobuchar) si combatteva le spoglie del bacino elettorale del vecchio ex Vice-Presidente.

A distanza d’una dozzina di giorni raccontiamo una storia assai differente: lanciato dal successo in South Carolina, Biden è entrato ringalluzzito dai sondaggi al Super Tuesday e ne è uscito andando anche oltre alle attese: non solo ha vinto dov’era scontato, ossia nel suo prediletto Sud (Alabama, Arkansas, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Virginia), ma ha conquistato la maggioranza dei delegati pure nel popoloso Texas – che era dato sul filo di lana – ed ha rovesciato i pronostici in Minnesota e – più soprendente di tutti – in Massachussetts. Tutto ciò malgrado Biden abbia speso meno dei rivali e avesse rispetto a loro meno uffici elettorali negli Stati interessati. In alcuni di essi ha davvero sbancato, come in Alabama dove ha superato il 60% dei voti (i sondaggi lo davano intorno al 45%) e persino in Vermont ha ottenuto un dignitoso 22% a casa del principale rivale, Sanders.

Il Senatore che si autoproclama “socialista” porta a casa, di contro, il nativo Vermont, lo Utah, il Colorado e, soprattutto, la California, dove però il laborioso metodo di voto per corrispondenza fa sì che la distribuzione dei delegati sarà completata solo nel giro di diversi giorni, forse persino settimane. L’entità del suo vantaggio in California (per ora è del 9% e siamo a metà dello spoglio) potrà cambiare parecchio in termini di conta finale dei delegati, e rendere meno amara la sconfitta. Di tale si tratta, tuttavia, considerando che entrava al Super Tuesday in posizione di forza ma, rispetto al 2016, non è riuscito a confermarsi vincitore in Minnesota e in Oklahoma. La consolazione viene però dalla assai migliorata prestazione in Texas e dal successo californiano.

I superiori risultati di Biden derivano, principalmente, dall’aver fatto incetta del voto dei fino all’ultimo indecisi. In tal senso hanno pesato gli endorsement dei due candidati appena ritiratisi, ossia Buttigieg e Klobuchar (quest’ultima decisiva nel ribaltare il risultato in Minnesota), così come quello di O’Rourke in Texas, e la generale mobilitazione dell’establishment del Partito Democratico per sbarrare la strada a Sanders. La convincente vittoria in South Carolina, l’incapacità di Buttigieg e Klobuchar di fare breccia nelle minoranze etniche, la frenata di Bloomberg a causa della debolezza mostrata nei dibattiti, sono tutti fattori che hanno spinto l’ala moderata dei democratici a schierarsi in massa con Biden, che aveva nel frattempo mantenuto la lealtà dell’elettorato afro-americano.

Se l’ex Vice-Presidente trova la sua forza elettorale tra i neri e gli anziani, Sanders la trae invece dai più giovani (persino tra i ventenni afro-americani), dai lavoratori bianchi non qualificati e – novità rispetto al 2016 – dai latino-americani. I suoi sostenitori lamentano il mancato ritiro dell’altra candidata considerata radicale, ossia Elizabeth Warren, ma va detto a onor del vero che pure Biden conserva un rivale centrista, ossia Michael Bloomberg. Il miliardario newyorchese, anzi, è andato meglio della Senatrice del Massachussetts, sebbene nel quadro di risultati deludenti (ha vinto solo nelle trascurabili Samoa e sta tra il 10 e il 15% in tutti gli altri Stati, con un picco del 20% solo in Colorado).

Bloomberg ha finora speso 600 milioni di tasca propria ed è per questo che, malgrado le prevedibili pressioni dal Partito, è improbabile molli dopo una sola tornata elettorale. Può sperare di arrivare a un congresso conteso – ossia in cui né Biden né Sanders abbiano la maggioranza assoluta – con un proprio tesoretto di delegati, da usare per contrattare una posizione nell’ipotetica futura amministrazione democratica (se non per sperare nel colpaccio, ossia la scelta del terzo incomodo tra i due litiganti). La Warren, che invece fatica a superare la soglia per ottenere delegati in molti Stati e incassa un’umiliante sconfitta nel suo Massachussetts, avrebbe ancor più ragioni per ritirarsi. Tuttavia, non è detto voglia favorire Sanders facendosi di lato: nel 2016, dopo tutto, appoggiò la Clinton contro di lui e recente è un duro scontro verbale tra i due. A meno che il Senatore del Vermont la ingolosisca offrendole il ticket presidenziale con lui, la Warren potrebbe restare in corsa, magari col preciso scopo (incoraggiato dall’establishment partitico) di azzoppare Sanders.

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Cosa succede ora? Il 10 marzo c’è una nuova tornata elettorale con sei Stati, sulla carta favorevole a Sanders. Queste primarie americane hanno già visto diversi saliscendi: quello di Biden, strafavorito per tutto il 2019, dato per morto a febbraio 2020, e ora di nuovo nominato in pectore a inizio marzo; o quella dello stesso Sanders, colpito da infarto a ottobre scorso, superato nei sondaggi pure dalla Warren, e invece vincitore nei primi tre Stati al voto. Di certo c’è che l’elettorato di Sanders è meno volatile, il che vuol dire meno difficoltà a mantenere un corposo zoccolo duro d’elettori, ma anche più difficoltà a convincerne di nuovi della bontà delle sue ricette socialdemocratiche.

Al momento l’esito più probabile è ancora che si arrivi a una convenzione senza maggioranza. Ma fa molta differenza se la maggioranza relativa sarà di Sanders o, come sembra ora più probabile, di Biden. La terza delegazione più numerosa sarà plausibilmente quella di Bloomberg, cui vanno aggiunti i “superdelegati”, ossia il 20% dei delegati che non viene eletto ma è nominato dal Partito: tutti costoro propenderanno ovviamente per Biden e non avranno problemi a dargli la maggioranza assoluta se avrà già quella relativa. Ben diverso sarebbe, in termini di percezione di legittimità, se Sanders si trovasse avanti ma spodestato a tavolino.

Sembra dunque che l’establishment democratico stia riuscendo nel sbarrare la strada a Sanders e far nominare un candidato centrista. Attenzione però: anche nel 2016 vi riuscì, a differenza di quello repubblicano, ma alla fine il vincitore fu l’antisistemico Trump e non l’organica Clinton. Biden ha molte debolezze: prono alle gaffes, fragile nei dibattiti, sporcato da sospetti di corruzione. Per questo a febbraio sembrava essere stato abbandonato da molti, salvo essere ripescato come “meno peggio” oggi. Non il miglior viatico per sfidare Trump a novembre.

AGGIORNAMENTO: dopo poche ore dalla pubblicazione di quest’articolo Michael Bloomberg ha annunciato il ritiro e l’endorsement a Biden. Dopo Steyer è il secondo miliardario a concludere infruttuosamente la campagna per le primarie avendo speso una cifra record attigendo alle proprie (a dire il vero ingentissime) risorse personali: un chiaro monito che l’impresa compiuta da Trump nel 2016 non è tanto semplice da ripetere. Al di là del ridimensionamento della figura di Bloomberg, il prevedibile convergere degli elettori di quest’ultimo su Biden rendono l’ex vice di Obama ora ancor più favorito per la nomination democratica (a maggior ragione se Elizabeth Warren dovesse insistere a rimanere in corsa).


Daniele Scalea è Presidente del Centro Studi Machiavelli.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.