(Traduzione da: Corvinak)
Il 4 novembre l’Ungheria ha commemorato la rivolta di Budapest del 1956, contro l’oppressione sovietica, e la sanguinosa repressione della stessa. Chi ricorda la tragedia della storia rende omaggio agli eroi che hanno imbracciato le armi e messo alle corde l’Unione Sovietica che occupava il Paese attraverso un governo fantoccio. Una speranza effimera, che durò pochi giorni prima che Mosca inviasse i carri armati a reprimere il desiderio di libertà con la consueta brutalità.
La rivoluzione è fallita, ma la fiamma era stata accesa. Gli ungheresi sono stati i primi a versare sangue per condannare la sinistra realtà del totalitarismo sovietico. Hanno piantato i semi della Primavera di Praga del 1968 e hanno incoraggiato i lavoratori dei cantieri navali di Danzica, il cui sciopero segnò l’inizio della fine dell’incubo comunista. L’Ungheria è stata un pioniere. Il Paese sentì subito che i venti della storia non soffiavano nella direzione che altri davano per scontata.
Ebbe ragione contro ogni previsione, vide l’erba crescere prima degli altri, osservò la luna quando gli altri stavano ancora guardando il dito. Questo sembra essere il destino del Paese e in genere dell’Europa Centrale, la cui posizione geografica tra Est e Ovest e il tragico passato l’hanno dotata di un sesto senso geopolitico e della capacità di resistere all’assalto di chi, per comodità, interpreta il presente alla luce effimera dell’ideologia.
Dogmi, sentimentalismi, slogan e breve termine: una ricetta infallibile per il fallimento storico, ma anche (tragico paradosso) il modus operandi dell’Occidente, che è così desideroso di porre fine alla storia da insistere nell’uccidersi a fuoco lento. In un’epoca di confusione e cacofonia, la voce dell’Ungheria rimane quella della sentinella, che vigila e avverte. Orbán guarda il mondo con la chiarezza dei suoi antenati, si assume l’ingrato ruolo di percepire le minacce esistenziali in tempi di amnesia e fa diagnosi accurate quando gli altri si abbandonano a posture morali. Cassandra per i ciechi, profeta per i prudenti: da dodici anni, il Primo Ministro ungherese mette il dito in una serie di piaghe che mostrano la cecità dell’élite politica e mediatica.
Ecco quattro esempi:
- Il primo è la migrazione clandestina e di massa e le sue disastrose conseguenze nei Paesi ospitanti. Il legame tra migrazione incontrollata e criminalità è innegabile. Così come l’impatto culturale di un’integrazione fallita, che si traduce in società parallele nei territori perduti della République o nelle periferie svedesi. Il traffico di esseri umani è una delle sue forme più redditizie, milioni di cittadini esprimono la loro indignazione e il loro disgusto e… niente: le élite continuano a raccontare l’immigrazione come se non fosse una scelta, ma un’inevitabilità storica e l’unico modo per pagare le pensioni.
- Il secondo, l’altra faccia della stessa medaglia, è il declino demografico di un’intera civiltà che ha perso l’istinto di sopravvivenza, annegando nell’abbondanza del benessere. Cullata dal sonno, esternalizza la sua continuità oggi per scavarsi la fossa ancora più profondamente domani. Non si lascia scoraggiare dalla minaccia di estinzione, ma la celebra, la desidera, la sostiene in nome del totem del cambiamento climatico e della colpa storica dell’uomo bianco.
- Il terzo è la difesa della nazione. La geopolitica non inganna: la guerra in Ucraina è un’ulteriore prova che la nazione è il quadro di convivenza per eccellenza e che la “globalizzazione felice” è fonte di fragilità e di ansia. Per navigare in queste acque agitate, l’interesse nazionale, la sovranità e le radici sono bussole più precise di valori universali triti e vuoti. Ma il riflesso pavloviano globalista continua a imporre i suoi dogmi e a erodere le nazioni con la scusa di qualsiasi crisi.
- In quarto luogo, l’importanza delle idee nello scenario di una dura guerra culturale. Il wokismo e i suoi deliri non sono una moda passeggera. Siamo di fronte a un’offensiva ideologica con sfumature totalitarie che minaccia la nostra libertà e il nostro retaggio in balia delle nuove tecnologie, dell’immediatezza, dell’amnesia e dei vettori dell’isteria emotiva. Queste idee catastrofiche possono essere combattute solo con altre idee, non tagliando le tasse o frenando l’inflazione. È combattendo seriamente la battaglia culturale per terra, per mare e per aria, nei media, nell’istruzione e nella cultura. Perché essere al governo non è la stessa cosa che essere al potere, e la marea di woke è qui per ricordarci che la sua egemonia e la sua realizzazione sono la diretta conseguenza della meschinità e della pigrizia della Destra ideologicamente castrata.
Orbán ha un’ampia visione strategica e l’energia per trasformare le idee in politiche concrete e ambiziose. Nel 2015 fu il primo a pronunciarsi contro la cecità dell’Europa in materia di migrazione. Nell’ultimo decennio ha attuato politiche familiari che hanno poco in comune con quelle dei Paesi nordici, concentrandosi non sulla “parità” ma sui tassi di natalità. La sua bussola politica è difendere gli interessi della grande maggioranza dei concittadini dalle ossessioni sovranazionali, dalle agende delle élite urbane e dai capricci delle minoranze di nuova concezione. E infine, su ogni campo di battaglia, combatte una guerra di idee, sfidando senza timore ciò che la Sinistra egemone considera suo appannaggio esclusivo.
Si tratta di una lungimiranza e di una franchezza per le quali l’Ungheria (e anche la Polonia) sta pagando un prezzo sempre più alto sotto forma di pressioni politiche, calunnie mediatiche e ricatti finanziari.
Essere un cane da guardia non è solo un compito ingrato, ma anche una questione di coraggio e determinazione.
Qualità che si distinguono per la loro assenza tra le classi dirigenti europee, ma che si notano chiaramente nell’Europa Centrale. Soprattutto in Ungheria, così nel 1956 così sessant’anni dopo.
Direttore del Centro di Studi Europei al Mathias Corvinus Collegium (MCC) di Budapest. Ha vari anni di esperienza presso la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. Laureato in Studi giuridici (College of Europe, Bruges), è professore invitato a Sciences Po Paris.
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