di Marco Malaguti

La tenace resistenza che, con alterne fortune, le forze armate ucraine stanno opponendo all’invasione del loro Paese da parte della Federazione Russa ha fatto riemergere d’un sol colpo alcuni problemi nascosti per lunghi anni sotto il tappeto in Europa Occidentale.

Un brusco risveglio

Nella resistenza ucraina, infatti, è ormai sempre più evidente il ruolo preponderante assunto dai battaglioni di volontari nazionalisti, che dimostrano una tenacia ed una determinazione nel combattere quasi sempre molto superiore rispetto ai reparti di leva delle forze armate canoniche. È noto come la determinazione a difendere la propria terra, la propria identità, siano elementi importanti all’interno del fattore bellico che definiamo solitamente come “morale delle truppe”. Per rischiare la vita di fronte a un nemico occorrono motivazioni e ideali che spesso non possono essere sostituite da una pur ottima retribuzione.

Nei Paesi dell’Europa occidentale, questo è un elemento che per anni si è preferito ignorare, continuando su di un percorso di decostruzionismo tanto dell’idea di nazione e patria quanto di quella delle forze armate e della guerra in sé, sull’onda lunga del pacifismo e del postmodernismo degli anni Settanta.

In un mondo che, non da oggi, è ormai è in pesante riarmo ed in pieno clima di riscoperta del proprio orgoglio nazionale, l’Unione Europea, con l’eccezione di alcuni Paesi (quali il blocco Visegrad e le repubbliche baltiche), ha continuato pervicacemente a rifiutare qualsiasi riflessione o rivalutazione della propria identità, quand’anche per mero tornaconto utilitario. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Putin e la conseguente necessità di procedere ad un pesante riarmo dei Paesi europei, Italia compresa, assume tutti i connotati della classica doccia gelata che mette fine a una sbornia: il mondo non è più, e forse non è mai stato, un paradiso di pace e diritti dove le nazioni cooperano armoniosamente e fanno a meno degli eserciti, ma un’arena anarchica di feroci competizioni geopolitiche nella quale nessuno fa sconti. In questa arena o si mangia o si viene mangiati.

La Germania si riarma

Per non finire mangiati ecco l’esigenza di un pesante riarmo, in particolare per quei Paesi europei più ricchi ed al contempo meno armati. La Germania, colosso economico di oltre ottanta milioni di cittadini, quarta potenza mondiale per PIL (fonte FMI) dopo Stati Uniti, Cina e Giappone, guida la classifica del club dei “ricchi e disarmati”. Una situazione non più compatibile con la realtà in atto, contro la quale già la presidenza Trump aveva puntato il dito e che con i democratici alla Casa Bianca ha assunto i caratteri dell’insostenibilità.

Ora non si scherza più. Con l’annuncio di Scholz di stanziare il 2% del PIL tedesco per la Difesa, i miliardi che la Repubblica Federale stanzierà per le proprie forze armate passeranno in un anno da 53 a 100. Per fare un raffronto è bene tenere a mente che i fondi della Federazione Russa destinati alla Difesa nel 2021 ammontavano a circa 41 miliardi di euro. La Germania si avvia dunque a ritornare, almeno negli auspici di Scholz, una potenza militare di tutto rispetto, con grossi investimenti nell’aviazione (nuovi F35) nella difesa missilistica (si parla dell’acquisizione da Israele dello scudo missilistico “Iron Dome”) e con un rimodernamento del misero parco corazzati della Bundeswehr.

Proteggere il popolo? È anticostituzionale

Una simile notizia rappresenta però un terremoto politico in Germania. Cresciuti nel pacifismo figlio della denazificazione, nel rifiuto a prescindere della forza e nella refrattarietà all’idea stessa di identità nazionale (specie se tedesca), per gran parte dei tedeschi di oggi l’idea di una Germania che si riarma rappresenta un vero e proprio tsunami che costringe a rimettere in discussione molte certezze che, ormai, erano diventate a loro volta costitutive dell’identità politica tedesca post-guerra fredda.

Proprio la resistenza accanita degli Ucraini ed il loro ardore nazionalista dimostrano che, se c’è qualcosa che può proteggere le nazioni europee, quel qualcosa è l’orgoglio identitario, la fierezza per ciò che si è. Un discorso inaccettabile per un Paese dove, sole poche settimane fa, la Corte amministrativa di Colonia aveva sentenziato che l’obbiettivo di “proteggere il popolo tedesco”, contenuto nello statuto di Alternative für Deutschland, è incostituzionale. Allo stesso tempo, e non da oggi, periodiche e pervasive inchieste tanto della polizia quanto dei servizi segreti epurano continuamente le forze armate (i cui membri sono spesso vicini alle istanze di AfD) del personale ritenuto politicamente pericoloso, adducendo improbabili “complotti contro la Costituzione”.

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Il lettore può chiaramente capire che, in un Paese in cui si dichiara che voler proteggere il proprio popolo è incostituzionale ed al contempo si raddoppiano le spese militari, vi è un problema di coerenza. Tutto ciò per il semplice quanto ovvio motivo che, mentre i cambiamenti a livello geopolitico possono avvenire nel tempo di un lampo, quelli culturali richiedono periodi molto più lunghi.

Emerge qui la proverbiale cocciutaggine tedesca, e più in generale europea, che per anni ha finto di non voler vedere il cambiamento non solo geopolitico, ma anche culturale, che si profilava all’orizzonte. Paesi come la Polonia, da sempre pervicacemente attaccati alla loro identità nazionale e proprio per questo bersagliati da ogni tipo di critica dai Paesi europei occidentali, ora che occorre contenere l’orso russo escono moralmente vincitori da questa contesa ideologica.

Un lavoro culturale tutto da fare. O forse no.

Se e come il cambio di paradigma tedesco a livello geostrategico innescherà in Germania, ma anche nei suoi Paesi satelliti, un cambio di paradigma culturale, sarà interessante indagarlo nel prossimo decennio. Ciò che è facile fin d’ora immaginare è che un’eventuale rivalutazione dell’identità tedesca non sarà né semplice né indolore.

Per decenni l’intero apparato culturale tedesco, dalla scuola ai mezzi di informazione, ha inculcato l’idea che ogni aspetto della storia tedesca, dai Franchi fino a Guglielmo II passando per il romanticismo, Fichte ed Hegel, non sia stato altro che un lungo trampolino preparatorio all’esperienza tragica della dittatura nazionalsocialista. Molti tedeschi di oggi, paradossalmente, finiscono per concordare con Hitler quando affermano che il nazionalsocialismo è stato il prodotto ultimo e distillato della Deutschtum, la germanicità. Per Hitler ciò implicava che la germanicità andasse esaltata, per molti tedeschi di oggi, per gli stessi identici motivi, essa va cancellata.

Cosa difenderanno, dunque, le nuove armate tedesche? La Germania cercherà, tramite la sua intellighenzia, di darsi un nuovo “nazionalismo civico” o cercherà di raccordarsi nuovamente alla sua identità, patriottica sì ma apertamente antitotalitaria, quale il liberalismo patriottico del Deutsche Bund del 1848, della Rosa Bianca e dell’Operazione Valchiria? In tal senso è la contro-cultura di destra ad essere in assoluto vantaggio sul mainstream culturale della Bundesrepublik: una rivalutazione dei miti patriottici nazional-liberali e anti-nazisti (quali ad esempio i moti del 1848 e la figura del golpista antinazista Claus Schenk von Stauffenberg) è già in corso da anni nei circoli culturali limitanei ad AfD.

Se, come, ed in che modo la cultura ufficiale si interesserà a queste esperienze culturali sarà indubbiamente uno degli aspetti più interessanti del dibattito politico tedesco nei prossimi anni.

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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.