Luca Marcolivio

L’Italia è a un passo dall’approvazione del ddl Zan contro l’omotransfobia. A detta di chi sostiene la nuova legge, si tratterebbe di un passo avanti verso la civiltà, l’uguaglianza e la fine delle discriminazioni. In più – film già visto – c’è chi intona le geremiadi dello “all’estero queste leggi ci sono, perché anche in questo dobbiamo essere fanalino di coda?”. È un’altra delle trappole ideologiche dell’anti-italianità preconcetta. Qualunque novità che provenga da oltrefrontiera è, per ciò stesso, necessariamente buona e giusta.

Pro Vita & Famiglia onlus ha compiuto un’operazione diametralmente opposta, realizzando un report piuttosto dettagliato e certosino sugli effetti delle suddette leggi tanto osannate. I risultati sono quantomeno allarmanti. Soltanto all’estero sono almeno 300 i casi conclamati di violazione delle libertà personali, suddivise fondamentalmente in cinque categorie: 1) Donne danneggiate da transgender che, in forza dell’identità di genere, hanno occupato spazi di convenzionale fruizione femminile (gare sportive, bagni pubblici, rifugi per donne vittime di violenza), non di rado compiendo abuso sessuale; 2) Persone denunciate per aver espresso contrarietà alle prerogative a vantaggio dei transgender di cui al punto precedente; 3) Persone denunciate, condannate, multate o incarcerate per aver sostenuto l’illiceità del “matrimonio egualitario” o dell’utero in affitto; 4) Persone denunciate, condannate, multate o incarcerate per aver semplicemente espresso i propri convincimenti etici o religiosi; 5) Persone che, per aver espresso idee “omofobe”, sono state licenziate dal loro impiego o – se liberi professionisti – hanno subito boicottaggio o grave pregiudizio. Le vicende menzionate nel report sono ovviamente soltanto la punta dell’iceberg: si stima che le vicende giudiziarie sconosciute ai media siano un numero esponenzialmente maggiore.

A fare tristemente la parte del leone sono i paesi anglosassoni: USA, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda ma, soprattutto, Canada sono gli avamposti di veri e propri esperimenti di ingegneria sociale. Con un primo risultato che spicca sugli altri: non è necessario attendere l’islamizzazione dell’Occidente per testimoniare il regresso dell’emancipazione femminile. Sono decine i casi di uomini che, autoidentificandosi come donne in base al principio dell’identità di genere, sono stati condotti in carceri femminili, dove hanno più volte commesso stupri ai danni delle detenute. Altri uomini, con la scusa della self identity, si introducono nelle toilette e spogliatoi femminili, rendendosi anche lì protagonisti di molestie e violenze sessuali. Altra fattispecie che spopola è quella del transgender sportivo. La biologia non mente e, in un gran numero di discipline (atletica, ciclismo, pallavolo, sollevamento pesi), sono gli uomini autopercepiti come donne a vincere tutte le medaglie. Negli sport di contatto, poi, in particolare nel rugby, per una giocatrice l’impatto fisico con un giocatore di sesso maschile può essere particolarmente devastante, con infortuni particolarmente rovinosi.

Si arriva poi ai risvolti più grotteschi e assurdi. Per il governo britannico non esistono più “donne incinte” o “donne che partoriscono”, bensì solo “persone” che portano avanti la gravidanza. Numerosi transgender partecipano ai concorsi di bellezza femminili e, in molti casi (è accaduto in Nuova Zelanda, Spagna e Nevada), li vincono. Intanto, nel Regno Unito, la Brighton and Sussex University ha sostituito la comunissima espressione “latte materno” con “latte umano” o “latte toracico”. In Australia, un’associazione lgbt ha lanciato un opuscolo in cui vengono dati suggerimenti per lo “allattamento al petto” ad uso dei transgender. La British Medical Association suggerisce di non definire le donne incinte “mamme”, per non offendere i transgender. Più di recente, in Messico, 18 candidati elettorali maschi si sono autoproclamati donne, aggirando così il cavillo delle quote rosa.

Per contro, chi osa resistere e continua a ragionare ‘secondo natura’ passa i guai. I più fortunati se la cavano con i crucifige dei media mainstream e la consueta orda di haters. Altri si vedono chiuso o sospeso il profilo social. È andata molto peggio ai malcapitati finiti in carcere nel Regno Unito, in Germania, Francia, USA o Canada: qualcuno si era azzardato a parlare al maschile di un transgender nato uomo; qualcun altro si era rifiutato di far seguire alla figlia un corso di educazione sessuale a sfondo gender. Se vieni visto indossare la maglietta della Manif Pour Tous puoi essere sbattuto in carcere ma puoi finire dietro le sbarre anche se ti sorprendono a bruciare una bandiera arcobaleno. In Norvegia una parlamentare è stata denunciata per aver detto che “solo le donne possono partorire”. A Londra, un 19enne è stato picchiato selvaggiamente da un gruppo di transgender per aver semplicemente detto che una donna è tale solamente se ha i genitali femminili. Stessa sorte per una “TERF” (espressione spregiativa con cui gli lgbt etichettano le femministe “binarie”) all’uscita di una conferenza sulle donne a Edimburgo. Chi nega le castronerie biologiche degli lgbt (al momento) non finisce in carcere, in compenso può facilmente perdere il lavoro ed esser esposto al pubblico ludibrio sui social. Anche chi si oppone all’utero in affitto (pratica peraltro illecita in Italia e in molti altri Paesi), finisce sotto il tiro delle intoccabili lobby arcobaleno.

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Nella sezione dedicata alle azioni legislative e governative, spiccano i numerosi ordini esecutivi gay friendly firmati da Joe Biden in poco più di tre mesi alla Casa Bianca, ma la distopia fa capolino anche in Canada, dove, grazie al Bill 89, lo Stato può sottrarre i figli ai genitori che si oppongono pubblicamente all’ideologia del gender. In Norvegia e in Scozia è passibile di denuncia chi parla male dei transgender anche in un’informale conversazione a casa propria o d’amici. Oltre al giro di vite contro tutte le terapie di conversione indirizzate agli omosessuali, colpisce quanto sta accadendo negli eserciti, fino a pochissimo tempo fa ultimo baluardo dell’antropologia “binaria”: in Canada non si usano più i pronomi sessualmente connotabili, ma il “premio follia” spetta all’Argentina, dove per legge è stata introdotta una “quota arcobaleno” (non meno dell’1%) riservata a travestiti e transgender.

L’arcobaleno si tinge di nero, allorché le follie dell’identità di genere si intrecciano paurosamente con la perversione pedofila. Ci sono stupratori di bambini che, una volta condannati, hanno iniziato a identificarsi come donne, per essere destinati alle carceri femminili. Negli USA un violentatore di bambine si è difeso dicendo di sentirsi un bambino intrappolato in un corpo da adulto. In Australia, un altro pedofilo ha auspicato uno sconto della pena, perché aver iniziato ad assumere in carcere degli ormoni per la transizione di genere, a suo dire, spegnerà ogni impulso a stuprare bambini.

L’ultima sezione del report riguarda l’Italia. Anche se nel nostro Paese ancora non vige una normativa contro l’omotransfobia, il quadro non è meno preoccupante. A livello di opinione pubblica, la pressione dei gruppi lgbt è fortissima e lo dimostrano tutte le cause giudiziarie o le gogne mediatiche che hanno visto coinvolti numerosi personaggi illustri di orientamento cattolico, conservatore ma anche femminista: dal senatore Simone Pillon all’avvocato Gianfranco Amato, dalla giornalista Marina Terragni allo scomparso psicologo Giancarlo Ricci, dal magistrato Simonetta Matone al neurochirurgo Massimo Gandolfini, dalla dottoressa Silvana De Mari al giurista Mauro Ronco. A finire nel tritacarne persino personaggi dello spettacolo di orientamento più o meno liberal: Pierfrancesco Favino, Checco Zalone, Luca & Paolo, Gué Pequeno, tutti accusati di battute omofobe o di osservazioni fuori luogo.

Se questa è la realtà attuale, cosa succederà, allora, se il ddl Zan – come è probabile – diventerà legge? Ma soprattutto: dopo tutto quello che è capitato all’estero, vale davvero la pena un cambiamento del genere?

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Saggista e giornalista professionista, è accreditato alla Sala Stampa della Santa Sede dal 2011. Direttore del webmagazine di informazione religiosa "Cristiani Today", collabora con "La Nuova Bussola Quotidiana" e "Pro Vita & Famiglia". Dal 2011 al 2017 è stato caporedattore dell’edizione italiana di "Zenit".