di Dario Citati
L’Indo-Pacifico quale “circuito geopolitico marittimo” del XXI secolo

Negli ultimi tempi anche in Italia si è imposto all’attenzione il concetto di Indo-Pacifico, malgrado non sempre se ne comprendano appieno la portata geografica e la rilevanza geopolitica. Il nome evoca infatti, quasi istintivamente, una regione distante – quella dell’Estremo Oriente – le cui dinamiche sono apparentemente remote rispetto ad una politica estera italiana dalla vocazione primariamente europea, mediterranea e atlantica.

In realtà, la nozione di Indo-Pacifico delinea una dimensione spaziale che va ben oltre la sola Asia, proprio in quanto evidenzia la congiunzione naturale tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, considerati come un continuum marittimo incorniciato da fasce costiere di natura addirittura “quadricontinentale”. I principali Paesi coinvolti nella dinamiche di questo circuito risultano infatti essere non solo le grandi e medie potenze dell’Asia orientale (Cina, Giappone, India, Vietnam e altri), ma anche i Paesi del Sud-Est asiatico e dell’Oceania (Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Australia), quelli dell’Africa orientale affacciati sull’Oceano Indiano (Somalia, Kenya, Tanzania, Mozambico e Madagascar), nonché, dal lato opposto, gli Stati occidentali prospicienti il Pacifico: in primo luogo Stati Uniti e Canada, ma anche i Paesi situati sulla costa ovest dell’America centromeridionale (Perù, Messico, Colombia e Cile).

Gran parte delle controversie di questo grande circuito indo-pacifico riguardano il ruolo della Cina come potenza globale. Nelle ultime due decadi, l’ascesa di Pechino è stata trainata da uno sviluppo di natura precipuamente costiera e marittima. Quella politica che fu efficacemente definita “strategia del filo di perle” (individuazione e costruzione di hub e punti strategici affacciati sull’Oceano Indiano) si è poi evoluta nella Via della Seta Marittima, in grado oggi di proiettare la Repubblica Popolare dall’Oceano Indiano all’Europa, passando dal Mar Cinese Meridionale attraverso lo Stretto di Malacca e arrivando, tramite lo stretto di Bāb al-Mandab e il Canale di Suez, fino al Mediterraneo.

Proprio in funzione di contenimento della proiezione marittima cinese da alcuni anni è stato istituito il QUAD (Dialogo Quadrilaterale di Sicurezza), una piattaforma di cooperazione navale tra India, Giappone, Stati Uniti ed Australia. Precocemente e impropriamente definita una “NATO dell’Indo-Pacifico”, questa struttura è dedita al pattugliamento delle acque, in particolar modo nel Mar Cinese Meridionale, a tutela dei principi di libertà di navigazione e di contrasto alla pirateria marittima (si legga: sorveglianza e deterrenza di manovre e movimenti cinesi). Due dei Paesi QUAD, Stati Uniti e Australia, sono però anche parte dei Five Eyes, l’alleanza di intelligence tra cinque Paesi anglosassoni con Nuova Zelanda, Canada e Regno Unito, i cui membri – ad eccezione di quest’ultimo – sono anch’essi Paesi con uno sbocco sul Pacifico. Non a caso la condivisione di informazioni tra Five Eyes e QUAD si sta facendo sempre più stretta, mentre da più parti si parla del possibile ingresso degli Stati asiatici più filo-occidentali (Giappone e Corea del Sud) in almeno una delle due strutture.

Sul piano economico-commerciale, in Asia meridionale è attiva e in ottima saluta l’ASEAN, l’associazione che riunisce nove Paesi del Sud-Est asiatico con un Pil intorno ai 3.000 miliardi di dollari. In America centrale e meridionale è stata costituita l’Alleanza del Pacifico, che ad oggi comprende Perù, Messico, Colombia e Cile, e dalla sua fondazione nel 2012 è cresciuta talmente tanto da annoverare oggi 7 Paesi candidati e 55 osservatori. Come sovente accade in politica estera, la competizione geopolitica non esclude e spesso si accompagna alla cooperazione economica: il RCEP (Partenariato Economico Globale Regionale) è un nuovo accordo di libero scambio, siglato a novembre 2020, che mette sotto uno stesso ombrello i principali rivali regionali, cioè la Cina, il Giappone e i Paesi ASEAN, fungendo da potenziale camera di compensazione per le tensioni nell’area.

Questo intreccio plurimo di raggruppamenti e alleanze che convergono ad anello verso l’Indo-Pacifico ne fanno a buon diritto il circuito geopolitico marittimo di incontro e scontro tra l’Occidente e l’Oriente nel XXI secolo. Tra i Paesi europei, Francia, Germania e Olanda hanno già delineato in propri documenti programmatici una proiezione nella regione. La politica estera del Regno Unito dopo la Brexit, fondata sul concetto di “Global Britain”, prevede ugualmente una ambiziosa – e criticata – “svolta verso l’Indo-Pacifico”. Quali sono ruolo e possibilità dell’Italia in questo contesto?

 

Gli strumenti dell’Italia: il dialogo con l’ASEAN e la presenza in Somalia e a Gibuti

Si può individuare in primo luogo un interesse di natura economica, relativo alle relazioni commerciali che il nostro Paese intrattiene con alcuni Stati dell’area, in particolar modo quelli propriamente asiatici. A fine 2020, dopo aver ottenuto lo status di partner di sviluppo, l’Italia ha avviato un importante progetto di cooperazione transnazionale con l’ASEAN, che prevede interventi a tutela dei beni culturali, dell’ambiente, delle energie rinnovabili e nella formazione nel campo della sicurezza. Ampliare il dialogo con l’ASEAN dalla sola sfera commerciale a tutti questi ambiti è stata certamente una intuizione felice, dacché la loro implementazione consentirà agli operatori economici di lavorare in un contesto di sempre maggiore certezza, tutele e regole condivise, aumentando le opportunità di sviluppo.

Il secondo interesse italiano – che in certa misura costituisce l’avamposto del precedente – è di natura politico-strategica e militare, relativo al posizionamento che la nostra nazione deve assumere nella ineluttabile competizione tra gli Stati Uniti (con i loro e nostri alleati asiatici) e la Cina. Qui, come sempre, la geografia costituisce allo stesso tempo un vincolo e un’opportunità. L’epicentro dell’interesse geopolitico italiano è infatti il Mediterraneo. E il “Mediterraneo allargato” verso il Corno d’Africa – attraverso il Canale di Suez e lo stretto di Bāb al-Mandab – rappresenta la porta d’accesso all’Indo-Pacifico dal lato dell’Oceano Indiano. È dunque proprio lungo questa striscia di territorio del Corno e dell’Africa orientale (dove l’Italia ha già una sua storica presenza) che va imperniato l’obiettivo di inquadrare gli interessi nazionali nelle dinamiche complessive dell’Indo-Pacifico e nel quadro delle alleanze in cui il nostro Paese è collocato.

Una proiezione diretta dell’Italia verso il Pacifico propriamente detto, al là dei rapporti commerciali bilaterali e con l’ASEAN, appare senz’altro irrealistica. Sul “versante Indo” – cioè sull’Oceano Indiano a partire dalle coste africane – Roma potrebbe invece legittimamente ambire a porsi quale presidio di sicurezza, cooperazione e legalità del chokepoint tra il quadrante euro-mediterraneo e il circuito indo-pacifico nell’ambito di una strategia occidentale integrata con le istituzioni europee e atlantiche.

Dal 2013 a Gibuti opera la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS) “Amedeo Guillet”, che si somma agli outposts statunitensi, cinesi, giapponesi e di altri Paesi che sorvegliano i traffici marittimi dello stretto di Bāb al-Mandab. Proprio da Gibuti si sviluppa la MIADIT, la missione di addestramento delle Forze di polizia somale e gibutiane in cui è impegnata l’Arma dei Carabinieri. In Somalia, l’Italia è invece presente a livello militare con ben tre missioni targate Unione Europea: la EuTM, che con le Forze Terrestri sostiene le istituzioni locali nel settore sicurezza; la EuNavfor-Atalanta, missione navale tesa a contrastare la pirateria e a garantire la sicurezza della navigazione; la EUCAP Somalia, che ha il compito di rafforzare le capacità del Paese in materia di diritto marittimo. Questo già notevole impegno italiano può costituire il punto di partenza per una politica estera che non sia soltanto “africana”, ma sia intesa quale rafforzamento della sponda occidentale dell’Indo-Pacifico.

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La proiezione del Mediterraneo allargato: un arco difensivo sulle coste africane dell’Oceano Indiano

Alla luce della geografia e dei rapporti di forza esistenti, per l’Italia il circuito indo-pacifico dovrebbe dunque costituire l’oggetto non di un’azione isolata, bensì il tassello di una proiezione geopolitica che concepisca il Mediterraneo allargato quale estensione verso il Corno d’Africa e sbocco sull’Indo-Pacifico. La contiguità strategica di queste aree implica però la definizione di politiche complementari e coordinate, anche perché esse, per loro natura, si riferiscono a dicasteri differenti (Difesa, Esteri, Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo) e si svolgono all’interno di una cornice multinazionale e multilaterale. La coordinazione a livello istituzionale – tanto nella fase di programmazione quanto in quella operativa – risulterà dunque fondamentale per non perdersi nei mille rivoli di iniziative sconnesse e di scarso impatto.

Tutto ciò che l’Italia riuscirà a realizzare in termini di sicurezza, stabilizzazione e cooperazione nel Corno d’Africa avrà un impatto positivo sull’Oceano Indiano occidentale – cioè sulla fascia ovest dell’Indo-Pacifico. Giova ricordare ad esempio che molti Paesi dell’Africa orientale, sia quelli rivieraschi (Somalia, Kenya, Tanzania, Mozambico) che quelli dell’entroterra (Etiopia) a gradi differenti sono finiti nel cosiddetta “trappola del debito” di Pechino e costituiscono punti di passaggio essenziali della penetrazione cinese. Senza certo lanciarsi in iniziative superiori ai mezzi di cui dispone, l’Italia potrebbe però realisticamente contribuire almeno ad attenuare la dipendenza dalla Cina di alcuni territori mettendo in campo una strategia integrata di cooperazione allo sviluppo, uso dello strumento militare, mediazione diplomatica. Ciò significherebbe assumere impegni strutturali sulle coste africane dell’Oceano Indiano che consentano agli USA un relativo disimpegno e permettano loro di concentrare maggiormente i propri asset nel Pacifico.

La presenza italiana sullo stretto di Bāb al-Mandab e la difesa delle coste somale andrebbero affiancate ad azioni verso l’entroterra, che includano non solo la stabilità interna alla Somalia, ma ad esempio la mediazione diplomatica nel conflitto in Etiopia. Qui la guerra nella regione del Tigrè, che vede i separatisti del TPLF opporsi al governo di Addis Abeba, è ben lungi dal dirsi conclusa. Dalla sua risoluzione dipende l’equilibrio di tutto il Corno, con importanti ripercussioni umanitarie e di sicurezza dalla Somalia all’Eritrea fino al Sudan e all’Egitto. L’Italia, che già aveva favorito l’accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia del 2018, deve avere voce in capitolo come mediatore.

Nell’accesso diretto all’Africa dall’Oceano Pacifico all’Oceano Indiano, invece, un altro Paese chiave è il Mozambico, al centro peraltro di una contesa USA-Cina per importanti progetti di natura energetica. La sua zona settentrionale (provincia di Cabo Delgado) è oggi funestata dal separatismo islamista. Negli ultimi mesi si è profilata la possibilità di una missione dell’Unione Europea in Mozambico che la Francia si è subito candidata a comandare, e nella cui eventualità l’Italia farebbe però bene ad assumere un ruolo di rilievo. Un potenziamento della presenza italiana a Gibuti – evidentemente da negoziare attraverso accordi con i principali Paesi alleati – appare comunque il presupposto necessario per molte azioni in Africa orientale anche a Sud del Corno.

In una prospettiva di più lungo periodo un luogo di crescente rilevanza è l’isola di Socotra. Appartenente allo Yemen e inserita nella lista del patrimonio mondiale Unesco per la rarità della sua flora, questa piccola e poco conosciuta isola è al centro di un complesso gioco di influenze tra Emirati Arabi, Oman e Arabia Saudita, suscitando l’interesse anche della Turchia (oltre che dei pirati della zona). Il valore geostrategico di Socotra, situata quasi all’ingresso del golfo di Aden tra Yemen e Somalia, è legato al suo potenziale ruolo di hub logistico (civile-militare) del “versante Indo”. Un obiettivo italiano degli anni a venire – ambizioso ma non irrealistico – potrebbe essere quello di inserirsi attivamente nelle dinamiche dell’isola attraverso le svariate forme che un impegno di questo tipo potrebbe assumere (accordi di sicurezza, cooperazione allo sviluppo, progetti infrastrutturali).

Allo stato attuale, può apparire forse difficile immaginare un’azione coordinata e simultanea dell’Italia in tutti i Paesi qui menzionati. Non vi è dubbio, tuttavia, che siano questi i teatri dove Roma è chiamata a profondere sforzi e investimenti al fine di proiettarsi, nell’ambito della geopolitica dell’Indo-Pacifico, quale “arco di difesa e di stabilità” dell’Occidente sulle coste africane dell’Oceano Indiano. Un impegno sistematico di questo tipo darebbe sostanza concreta al concetto di Mediterraneo allargato. Soprattutto, esso consentirebbe all’Italia di inserirsi bene nella strategia di contenimento marittimo della Cina, dimostrando affidabilità nei confronti degli Stati Uniti e assumendo un ruolo di tutto rispetto all’interno dell’Unione Europea – senza per questo portare avanti atteggiamenti apertamente e inutilmente ostili verso Pechino. L’accresciuto prestigio lungo tale orizzonte strategico-militare si rifletterebbe senz’altro sulle relazioni con i Paesi QUAD e ASEAN, favorendo quindi l’implementazione di accordi e l’espansione di natura squisitamente economico-commerciale verso il Pacifico.

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Co-fondatore e Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Storia Contemporanea e Dottore di ricerca in Studi Slavi presso l’Università Sapienza di Roma.