A gennaio è stato pubblicato negli USA un interessante libro dal titolo The new class war. Saving democracy from the metropolitan elite. Si tratta di un saggio equilibrato e veritiero sullo scontro tra establishment e populisti, fra i cui pregi c’è il provenire da un autore non direttamente ricondubile alla Destra populista. Michael Lind, professore all’Università del Texas, è sì un ex neoconservatore (la sua carriera iniziò tra Heritage Foundation e “The National Interest”), ma si è distaccato dalla Destra sin dalla metà degli anni ’90. Interessante dunque che un autore non “populista” rifiuti in toto la narrativa del complotto russo e/o neonazista, tanto in voga tra la Sinistra e i media pro-establishment.
Come si evince fin dal titolo, la lettura di Lind è di tipo classista. Al centro c’è la lotta di classe, che si situa in tutti e tre gli ambiti del potere sociale, ossia politica, economia e cultura. La lotta di classe “storica”, quella ottocentesca e primo-novecentesca, si concluse – racconta Lind – con un patto indotto dalla necessità di mobilitare tutte le forze sociali nello sforzo bellico delle due guerre mondiali. Esso partorì l’America del New Deal e l’Europa dell’economia sociale di mercato. Dagli anni ’60 del secolo scorso cominciò tuttavia quella che Lind definisce “rivoluzione dall’alto del neoliberalismo tecnocratico”, fatta di deregulation, delocalizzazioni, immigrazione massiva, paradisi fiscali, dismissione dei partiti di massa a favore dei comitati elettorali controllati da grandi finanziatori ed esperti di comunicazione, controllo di media ed educazione da parte della classe dirigente, svuotamento della democrazia tramite il passaggio di poteri verso burocrazia, tribunali e organismi sovranazionali. Tutte queste misure hanno teso e tendono a realizzare un solo obiettivo: il vantaggio del capitale sul lavoro; il dominio non democratico dell’élite manageriale, della classe apicale che l’Autore definisce overclass, “sovraclasse” o “superclasse”. È a questa offensiva dall’alto che i ceti medio-bassi hanno risposto sostenendo il “populismo demagogico”, come lo chiama sempre Lind, e che a suo avviso sarà non di meno sconfitto perché l’establishment continua ad avere il monopolio su competenze, ricchezze e cultura.
La critica di Lind alla tecnocrazia neoliberale è puntuta e ben assestata. Al di là della narrativa apologetica, non siamo di fronte a un modello socio-economico fondato su libertà, eguaglianza e meritocrazia. La nostra società è basata su un’economia mista dominata dalla burocrazia: corporation burocratiche, governi burocratici e non-profit burocratiche. Inutile dire che i ranghi di queste burocrazie (ontologicamente alternative alla democrazia) sono costituite dai membri della stessa élite e sussumibili dunque in un’unica “aristocrazia”. Quest’ultima ha però ben poco degli aristoi e di meritocratico: si tratta di una sovraclasse, che Lind stima nel 10-15% della popolazione, con caratteri marcatamente ereditari (studi citati mostrano che il vantaggio economico ereditato dai genitori dura per 3-6 generazioni). Il tanto sottolineato contrasto tra elettori laureati e non laureati non corrisponde a quello tra colti e ignoranti, ma tra classi sociali largamente ereditarie in cui il percorso degli individui ricalca quello dei padri a prescindere dal merito.
La dicotomia sociale è anche territoriale. Non tanto tra città e campagna, come si ripete spesso, bensì tra fulcri (hub) ed entroterra (heartland): ossia tra distretti urbani d’affari da un alto e periferie e province dall’altro. Gli hub hanno un maggior reddito medio ma non sono più produttivi: la produzione di beni ed energia sta nell’entroterra. I ricchi abitanti degli hub richiedono servizi di lusso spesso svolti da immigrati, poiché i salari offerti sono bassi ma il costo della vita in città è alto (nelle metropoli progressiste d’Occidente il divario sociale è simile a quello del Terzo Mondo). Lungo gli assi della polarizzazione geografica si delinea quella politica: da una parte élite ricca e immigrati poveri, dall’altra i lavoratori. L’immigrazione rientra appieno nella logica della lotta di classe perché, come afferma Lind, in epoca di produzione transnazionale ogni politica migratoria è anche politica del lavoro. L’élite manageriale non si fa problemi a utilizzare l’immigrazione poiché, autodefinendosi in base all’occupazione, è intrinsecamente cosmopolita; ben diverso per la classe lavoratrice, che si identifica nella comunità d’appartenenza.
L’immigrazione è solo uno degli strumenti impiegati dall’élite per vincere la lotta di classe. Come spiega Lind, il principale è l’arbitraggio globale: grazie all’abbattimento delle frontiere sfrutta le differenze di salario, regole e fisco tra diverse giurisdizioni politiche. Quest’arbitraggio è lo scopo principale della globalizzazione: non a caso i settori oggetto d’armonizzazione internazionale sono sempre quelli che beneficiano la sovraclasse – brevetti, finanza ecc. – mai quelli che la danneggerebbero – fisco, salari e così via. La burocrazia che presiede agli accordi internazionali ha un ruolo centrale, poiché spesso la legislazione neoliberale avviene per trattato: ai parlamenti nazionali sono fatti ratificare lunghi trattati di difficile comprensione, al cui interno si nascondono norme e regole che i medesimi parlamentari non approverebbero mai consciamente.
Centrale è anche il ruolo della magistratura. Come scrive l’Autore, la democrazia è stata trasformata in una giuristocrazia: le questioni politiche non sono più trattate da tali, ma presentate come questioni legali da risolversi non nei parlamenti bensì nei tribunali, laddove l’élite è egemone. Soprattutto le corti costituzionali occidentali si pongono ormai non più come meri controllori, bensì quali superlegislatori non elettivi che scavalcano i parlamenti e legiferano al posto loro.
L’adesione dei partiti tradizionali al neoliberalismo, caro alla classe dirigente ma non alla maggioranza popolare, ha creato lo spazio per una controrivoluzione populista. Lind liquida con eloquenza le fantasie su complotti russi e risorgenze naziste, frutto di paranoia di un’élite manageriale che, al contrario, è la vera minaccia alla democrazia, poiché sta degradandola a oligarchia in stile sudamericano. Di tale scenario fanno parte anche le temporanee ascese di caudillos demagogici. L’Autore non mostra di apprezzare i leader populisti: li considera demagoghi e a tratti razzisti, dimostrando così di non essere del tutto alieno ai pregiudizi dell’élite di cui, del resto, socialmente fa parte. Forse sparare a zero su Trump e Salvini è funzionale a “salvarsi l’anima” di fronte a coloro ch’egli stesso riconosce come controllori del discorso. Tuttavia c’è qualcosa nella critica di Lind al populismo che possiamo riconoscere come vero. Esso sfida sì la classe manageriale, ma con spirito di reazione e controcultura, non con un programma positivo e rivoluzionario: il populismo è contro l’establishment ma non mira a farsi esso stesso establishment. Un esempio sta nella difficoltà che ha il populismo di trovare esperti e tecnici capaci di formulare politiche e amministrare in linea coi suoi princìpi. Le competenze sono monopolio dell’élite e i populisti non si sforzano di sottrarglielo, coltivando propri pensatoi, centri di ricerca e circoli intellettuali. Si tratta questa di una valida critica dell’accademico americano, che merita d’essere ascoltata.
Lind liquida non solo la reazione populista, ma anche i vari progetti futuristici che vengono partoriti per placare il popolo senza mutare gli assetti fondamentali della società tecnocratica. Vale per l’idea che sia sufficiente diffondere l’istruzione tecnica e superiore tra i ceti subalterni (i posti di lavoro legati alla knowledge economy sono numericamente ridotti), vale per l’idea di un reddito universale di base (o “reddito di cittadinanza” per noi italiani), che non sarebbe sostenibile nel momento in cui la produttività non aumenta perché si punta sulla manodopera a basso costo anziché sulla tecnologia, e nel momento in cui i ricchi potrebbero sfuggirvi cambiando sede fiscale. L’unica alternativa per l’Autore è scardinare il neoliberalismo, privarlo di delocalizzazioni, commercio senza barriere e immigrazione di massa, ossia delle sue armi letali contro le classi lavoratrici.
Il modello cui guarda Lind per il futuro è quello del New Deal e del suo “pluralismo democratico”, in cui la classe superiore spartisce il potere con quella subalterna. Suoi elementi caratterizzanti sono la concertazione sociale, la contrattazione collettiva, i corpi intermedi di massa (partiti, sindacati, associazioni), il rispetto dei valori popolari da parte di media e cultura. Ci sono molti punti degni di riflessione nella società immaginata da Lind. Egli prevede un “federalismo sociale”, ossia d’affiancare alla rappresentanza parlamentare su base territoriale anche una su base sociale. Istituzioni rappresentative di singoli settori della comunità si vedrebbero delegare ambiti di decisione politica: ad esempio i salari sarebbero competenza di imprenditori e sindacati. Lo Stato vigilerebbe su interesse nazionale e diritti individuali, ma senza ingerire troppo nella concertazione tra le parti sociali. La rappresentanza democratica andrebbe moltiplicata, estendendola anche agli organi non legislativi: ad esempio istituendo commissioni di vigilanza elettive sulle varie agenzie e ministeri che hanno funzioni esecutive, affinché i burocrati non possano disfare ciò che il parlamento ha deliberato.
Certamente il quadro ideale tracciato da Lind non è privo di difetti. L’Autore americano sovrastima forse la capacità dei sindacati di rovesciare con la loro sola presenza i valori in campo: abbiamo sperimentato come essi, pur rimanendo di massa, possano tramutarsi in “sindacati gialli”, al servizio più dell’ideologia dell’élite che degli interessi dei lavoratori. Anche laddove auspica che le varie comunità religiose abbiano influenza su media e cultura, potendo assicurare che i rispettivi valori siano rispettati, mostra una prospettiva americanocentrica che, traslata in Europa, potrebbe avere gli effetti inversi a quelli sperati: sottomettere la cultura autctona della classe lavoratrice a quelle esotiche importate e vezzeggiate dalle élite nel loro programma multiculturalista (immaginiamoci ad esempio se le organizzazioni religiose islamiche potessero determinare i contenuti televisivi e scolastici). Poco convincente è anche la soluzione che Lind individua alla competizione salariale apportata dagli immigrati: oltre a una condivisibile riduzione degli ingressi, egli propone l’immediata estensione di tutti i benefit sociali e la rapida concessione della cittadinanza a tutti gli immigrati, aggiungendo pure un’amnistia generale per tutti i clandestini.
È forse proprio nell’epilogo che l’Autore rivela il perché di progetti tanto dissonanti con quella critica radicale che compie nell’opera ai danni della tecnocrazia manageriale: il suo intento, spiega, non è quello di rovesciare l’establishment, bensì di permettergli di rimanere in sella mutando filosofia di governo. La sensazione è che la classe dirigente non sia disposta a un cambiamento tanto radicale: come dimostra anche il progetto di riforma, solo parzialmente commendevole, proposto da Michael Lind.
Daniele Scalea è Presidente del Centro Studi Machiavelli.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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