Che difesa dell’identità ed illuminismo siano due concetti separati è forse uno dei cliché più affermati nella politica contemporanea. Il termine cliché non è peregrino, poichè, come spesso accade, la realtà delle cose si distanzia in maniera sensibile dalla narrazione vigente, peraltro accettata sia dalle sinistre sia dalle destre.

Quando parliamo di Illuminismo ci riferiamo ad un fenomeno tutt’altro che unitario, con sensibili differenze all’interno delle sue correnti, dei suoi autori di riferimento. Da Rousseau a Babeuf a Kant, all’interno di questo calderone ci sono le origini di tutte le teorie politiche che hanno sconvolto il Novecento, dal liberalismo ai fascismi, fino ai socialismi. Nonostante il Conservatorismo classico abbia tentato di rimanere separato dalle matrici culturali della Rivoluzione Francese, gli assiomi dell’Aufklärung sono egualmente penetrati anche all’interno del filone di pensiero conservatore, per cui possiamo dire con tranquillità che i princìpi che regolano la politica di oggi, in tutte le sue sfumature, sono figli dell’Illuminismo. Il pregiudizio che le destre nutrono verso l’Illuminismo viene in particolare per le basi egualitarie del pensiero dei Lumi: basi che però sono spesso e volentieri tutt’altro che democratiche, come diremo più avanti.

Tra le categorie più contestate della politica odierna troviamo il cosiddetto populismo, il quale più che teoria politica si può definire, per ora, prassi, dal momento che esistono populismi sia socialisti, sia di destra, sia liberali. Tralasciando esempi pre-moderni, possiamo affermare che il populismo trova una pietra miliare nella stampa de Il contratto sociale di Jean Jacques Rousseau: primo testo politico ad affermare che il popolo è suddito esclusivamente di sé stesso. Per Rousseau i popoli non correvano alcun rischio di annegare nel dispotismo proprio perché, essendo ogni individuo parte del popolo, tutto il potere che egli cedeva alla comunità lo riacquisiva in quanto parte della comunità. Kant criticherà aspramente questa concezione, soprattutto per la totale assenza del concetto, poi diventato popolare, di separazione dei poteri.

Per Kant il populismo di Rousseau altro non è che “dispotismo”, per il fatto che il potere assembleare governa e delibera al contempo, in una totale assenza di contrappesi. Un’assenza pericolosissima per gli individui (grido d’allarme già lanciato da Constant sempre a proposito delle teorie di Rousseau), nonostante Kant, evidentemente, non concepisse che i vari rami del potere si potessero fare la guerra l’uno con l’altro, come accade oggi. Si capisce, da questa prospettiva, la ragione dell’avversione di Rousseau per il principio di rappresentatività, che diventerà uno dei cardini del Liberalismo, in favore invece della democrazia diretta. Per Kant, i contrappesi devono impedire il dispotismo delle masse, che è persino peggiore dell’assolutismo precedente, ed i governanti devono agire “come se” il consenso ci fosse e non sulla base di un consenso effettivo, nel nome del bene supremo della comunità, i cui interpreti sarebbero il Sovrano o il governo. Si tratta di una differenza sostanziale che divide due importanti autori illuministi, nel quale inquadriamo già l’attuale polemica tra quelli che Veneziani ha acutamente diviso in Comunitari e Liberals. I populisti di oggi sono dunque nella scia del pensatore di Ginevra piuttosto che in quella del filosofo di Königsberg, ma il bivio che si pone di fronte ad essi, quello tra “civici” ed “identitari”, li aspetta al varco con una profonda scelta da affrontare.

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La natura contrattualistica della filosofia di Rousseau infatti cessa qui il proprio ruolo di guida per congedarsi da coloro che, nell’alveo populista, inquadrino l’identità dei popoli come principio insindacabile a fondamento di una comunità, mentre non abdica al suo ruolo per coloro che, anche da destra, considerano la società come un mero patto tra contraenti (appunto, un contratto sociale). Dall’altro lato del bivio, attende l’idea di comunità come base ereditata ed ereditaria le cui forme e confini sarebbero dati metastorici dotati della capacità di fabbricare il nostro modo di pensare. In questo senso, il filosofo tedesco J.G. Herder anticipò i postmoderni quali Lyotard notando come l’esercizio della ragione illuministica fosse essenzialmente condizionato dalla costante pratica del linguaggio.

Il linguaggio, nella tesi herderiana, è differente da popolo a popolo, ed è forgiato da elementi, sia razionali sia irrazionali, inimitabili. Ogni linguaggio sarebbe portatore di un carattere nazionale che andrebbe a fabbricare, in quanto primo strumento di apprendimento dell’uomo, il nostro modo di pensare e di esercitare la Raison declinata in senso illuministico. Il messaggio di Herder va dunque a riconciliare sia Rousseau sia De Maistre (che affermava di non conoscere uomini ma solo Francesi, Spagnoli, etc.), laddove la comunità rousseauiana illuministica è valorizzata e portata al centro ma senza essere ecumenica, spogliata da qualsivoglia universalismo aggressivo o emancipatore. Ogni popolo ha, per Herder, la sua ragione, e di conseguenza sono le classi più vicine alle “matrici” del linguaggio (il paesaggio, la natura etc.), dunque quelle più basse, a essere realmente conservatrici, nel senso di custodi, di identità e dunque della sovranità. Il popolo, nella visione identitaria di Herder, si contrappone naturaliter alle borghesie cosmopolitiche, che invece sono per natura classiste – e dunque “straniere” – proprio nel loro esser distanti da quell’ambiente che codifica i linguaggi, chiuse come sono nei loro salotti francesizzanti.

Come già rimarcato, un vero approccio postmoderno al problema dell’identità e della sua legittimazione, sarà la vera architrave per la costruzione di una vera narrativa populista abbinata ad un reale discorso politico sovranista.


Marco Malaguti è esponente di Progetto Prometeo.

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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.