Le proteste di massa dei cittadini di Hong Kong contro il potere cinese non soltanto non accennano a finire, ma si sono ormai trasformate, a trent’anni esatti dalla rivolta di piazza Tien An Men, in uno scontro fatale che sintetizza esemplarmente le contraddizioni profonde insite nelle trasformazioni della grande potenza asiatica. 

Quando nel 1997 il Regno Unito restituì alla Cina la colonia, sia pur sotto un regime speciale di autonomia, le previsioni erano ottimistiche, nonostante la memoria ancora fresca della sanguinosa repressione del 1989. In Occidente quasi tutti gli osservatori ritenevano che sotto la spinta alla globalizzazione l’integrazione della Cina nelle maggiori economie capitalistiche mondiali fosse destinata a condurre il paese verso una società ed un regime politico compatibile con quelli occidentali. In questo contesto, si pensava che il rientro di Hong Kong nella madrepatria avrebbe costituito un modello, un nucleo attrattore verso il quale si sarebbe presto mossa l’intera società cinese.

A più di un ventennio di distanza, si può ormai con certezza affermare che quelle previsioni erano troppo ottimistiche. La Cina, come sappiamo, si è inserita da protagonista nell’economia globalizzata, ma lo ha fatto in maniera molto peculiare, destabilizzandone gli equilibri attraverso il suo modello di produzione a bassi costi e scarse regole sottoposta a una forte disciplina dirigista, tutta sbilanciata verso l’esportazione. I suoi cospicui investimenti all’estero rispondono non solo a esigenze di profitto ma anche ad un più ampio disegno di espansione dell’influenza politica nel mondo, ultimamente incarnata al massimo grado dall’ambizioso progetto di comunicazione e trasporti eurasiatici noto come “Belt and road” o “La nuova via della seta”. Intanto, non vi è stata alcuna significativa evoluzione del paese verso una maggiore democrazia: le limitazioni alla libertà di parola come la censura permangono, e si estendono alla comunicazione digitale; il dominio assoluto del partito comunista è stato più volte ribadito. E ora questi nodi vengono al pettine anche nei rapporti con l’enclave liberaldemocratica di stampo anglosassone rappresentata da Hong Kong, che subisce una pressione per l’omologazione ormai intollerabile dalla sua opinione pubblica.

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L’esplosione di questo conflitto si pone allora come un potente riflettore sulla persistente caratterizzazione autoritaria della potenza asiatica e sulla sua strutturale inclinazione imperialistica. Aspetti per troppo tempo sottovalutati dalle classi dirigenti europee, ma con i quali esse non possono più evitare di fare i conti. Mentre sempre più si delinea una nuova contesa per l’egemonia economica e politica mondiale tra l’arrembante drago cinese e gli Stati Uniti guidati da Donald Trump, i paesi dell’Unione – e tra essi l’Italia, sospesa più che mai nell’incertezza politica e nella latitanza della politica estera – sono chiamati su questo punto ad analisi realistiche e a scelte strategiche decisive.


Eugenio Capozzi è professore ordinario di Storia contemporanea, consigliere scientifico del Centro Studi Machiavelli.

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Professore ordinario di Storia contemporanea all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È Consigliere Scientifico del Centro Studi Machiavelli.
Fa parte del comitato scientifico della rivista accademica "Ventunesimo secolo. Rivista di studi sulle transizioni".