di Claudia Ruvinetti

Le mode passano, i conflitti restano. Nell’ultimo anno sono successe tre cose – apparentemente banali, di poca importanza per i non addetti ai lavori ma meritevoli di attenzione per chi analizza i fenomeni di costume – che  segnano una piccola crepa nel mondo woke.

La sfilata invernale di (Sua Maestà) Giorgio Armani è sembrata a tutti in controtendenza rispetto ai canoni degli ultimi anni: coppie eterosessuali che camminavano in passerella, strette fra loro e nei rispettivi vestiti dal taglio sobrio, pulito, cifra caratteristica dello stilista milanese, lontani dalle baracconate a cui le passerelle mondiali ci hanno abituato negli ultimi anni. A detta dello stesso Armani questa è stata una “precisa scelta stilistica”, una esplicita necessità di tornare alla dolcezza del classico e della tradizione.

Alessandro Michele, lo storico creator della maison Gucci, che ne ha profondamente cambiato l’immaginario utilizzando forme destrutturate e genderless, ha interrotto la collaborazione con la casa di moda. Non se ne sa la motivazione, ma si vocifera anche che i ricavi non fossero più all’altezza delle aspettative.

È recente la notizia che il celebre marchio statunitense di biancheria intima “Victoria’s secret” abbia fatto un’inversione di tendenza – passando  da collezioni “inclusive” che strizzano l’occhio al femminismo, con modelle plus size e trans – per  poi tornare alla classica cifra stilistica del brand, una biancheria intima sexy indossata da modelle molto femminili.

A cosa serve la moda?

Il primo autore ad occuparsi in maniera strutturata di moda fu George Simmel ai primi del novecento. Il sociologo tedesco nel breve ma denso saggio “La moda” delinea alcune caratteristiche del fenomeno in questione: innanzitutto la moda nei paesi occidentali deriverebbe dalla tendenza ambivalente di “differenziarsi” e allo stesso tempo di “appartenere”, essa esprime quindi la tensione tra uniformità e differenziazione, il desiderio ambivalente di essere parte di un gruppo e simultaneamente stare fuori del gruppo, affermando la propria individualità.

I futuristi nel 1914 nel saggio “Il vestito antineutrale” ironizzavano sugli abiti grigi e anonimi dalla borghesia di quel tempo, definendo il loro stile non con il termine sobrietà ma attraverso l’espressione di “equilibrio mediocrista”. Ma mentre all’epoca di Simmel il vestirsi e acconciarsi in un determinato modo marcava differenze importante di classe e di ceto, ora, a causa delle catene low cost che riproducono in serie gli spunti dati dagli stilisti, non vi è una grande differenza tra lo stile della influencer più agiata e la ragazzina di periferia. Questa riflessione, che da un lato porterebbe ad una banale considerazione sul fatto che gli stili trapassano la differenza di ceto, ci conduce ad un territorio più nascosto portandoci all’idea che la differenza di classe nella moda abbia lasciato il posto ad un altro scontro, più silenzioso e meno evidente: lo scontro di tra i sessi.

Oltre gli status symbol: la moda come terreno di scontro tra i sessi

Il vestire e il vestiario, da mero vezzo o al polo opposto necessità, diventano il terreno di una battaglia simbolica politica, che non è più materiale e legata alla creazione di status symbol (l’eskimo, le Timberland, il Rolex …)  quanto di discussione e ridiscussione di sessualità e di potere fra i sessi. La moda del corpo è un processo che si è sviluppato maggiormente nella post-modernità, poiché vi è una costruzione sociale del corpo, che non è solo pubblicitaria o di marketing, ma politica con i suoi modelli e i suoi miti. Gli anni ’10 del Duemila hanno segnato l’apice di un tendenza chiarissima: la moda non è più sexy, i vestiti si fanno sempre più informi, larghi, scivolati sulla figura, alcune case di moda, tra le quali spicca Gucci, disegnano uno stile androgino, buffo, sgargiante ma decisamente non sexy. A volte questa tendenza è sottaciuta, rimanendo ai margini di un discorso espresso compiutamente, altre volte sono proprio i protagonisti dell’alta moda a esplicitare queste tematiche. Un esempio è Miuccia Prada che, già da decenni ma questa tendenza si è rafforzata negli ultimi anni, ha fatto dell’ugly-chic la sua cifra stilistica.

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Insomma sembra che il cardine del bello, inteso come pulizia di forme e simmetria di matrice Rinascimentale, lasci il posto al buffo, al comodo, al confuso e al chiassoso. Miuccia Prada fa dell’estetica del brutto quasi una rivendicazione filosofica e in un’intervista dice:

“…il brutto è attraente, il brutto è eccitante. Forse perché è più nuovo. Per me la ricerca del brutto è più interessante dell’idea borghese di bellezza. E perché? Perché il brutto è umano”.

Questo discorso potrebbe sembrare semplicemente un caso, l’estro di un’artista che legittimamente si esplica nelle forme e nei modi che più trova congeniali, in realtà ci troviamo di fronte ad un preciso tentativo di scardinare le più basilari leggi dell’attrazione e la moda deve essere tutto fuorché sexy. Parlare di processo di “ingegneria sociale” forse è prematuro e ha delle sfumature complottistiche, ma non vi è dubbio che le grandi case di moda, i periodici di grido e le personalità influenti che girano intorno ad essi stessero marcando un nuovo modo di concepire lo stile, sottacendo l’idea che vestirsi per compiacere gli uomini fosse sbagliato.

Le nuove generazioni sono letteralmente inondate da queste contraddizioni, un nuovo puritanesimo progressista, che da un lato incoraggia la mercificazione del corpo attraverso la libertà di promuoverlo con piattaforme come Only fans, le stritola in meccanismi di diete eccessive, dall’altro colpevolizza le donne se “osano” vestirsi anche per compiacere lo sguardo maschile. I casi riportati a inizio dell’articolo ci dicono che forse la Natura delle relazioni prende il suo corso, per quanto si voglia creare a tavolino meccanismo di solitudine, individualismo e scontro tra i generi, i meccanismi della seduzione rimangono per fortuna umani, troppo umani.

Foto Cyril Attias, CC 2.0 SA by ND
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Laureata in Psicologia, militante politica, coltiva parallelamente la passione per i temi della comunicazione politica, del rapporto fra i sessi e della storia militare.