di Claudia Ruvinetti

Chissà cosa avrebbero detto i nostri contemporanei di Simone Weil, quando nel 1943 scriveva che “fra tutte le esigenze dell’anima umana nessuna è più vitale di quella del passato”, oggi che siamo costantemente proiettati verso il futuro, immaginando uno spazio prospettico che fagocita ogni dimensione passata e presente.

Il progresso ha una fine?

Uno degli assiomi più comuni della filosofia e della psicologia ingenua, assunto implicito che poi si riflette nei discorsi politici pubblici, è che il tempo sia lineare, per cui ogni dimensione umana si estende in una retta che va verso un futuro non definito. Questa concezione è assimilabile all’assunto di “progresso umano”, all’interno del quale ogni epoca riassume e cancella quella precedente.

Il concetto di progresso così come lo intendiamo oggi si è sviluppato durante l’Illuminismo, per una reazione ostinata e contraria al passato, in quanto esso era identificato come pre-scientifico in assoluto, foriero solo di superstizioni e idola tribus. Al di là dello sviluppo della tecnica, che in gran parte rispecchia questo modello lineare e scientifico, l’esistenza stessa dell’Uomo è immersa in un tempo ciclico o a spirale, nel quale i ricordi e i miti si attualizzano ogni giorno. In un mondo dove tutto è fluido anche la nostalgia non è più quella di una volta ma cambia a seconda delle sfumature di significato che a questo termine si danno. L’aggettivo “nostalgico”, per esempio, viene riferito a tutti quei gruppi politici o umani che hanno un ancoraggio al passato, visto però in ottica macchiettistica e sterile. In realtà il termine trae le sue origini dalla scienza medica ed è nato precisamente a fine Seicento in campo militare, per descrivere una condizione simile alla melanconia che colpiva le milizie assoldate in campi stranieri.

La nostalgia non è più quella di una volta

L’autore di questa definizione linguistica è lo studioso di medicina Johannes Hofer che nel 1688 prende in prestito due parole greche, nostos e algos, per coniare il neologismo nostalgia, che tradotto alla lettera sarebbe “il dolore per l’impossibilità di tornare a casa”. Il termine nostos in greco ha una sfumatura più carica del solo viaggio nello spazio fisico, è un ritorno ad una terra cara, con il suo carico di emozione agrodolce all’interno di un viaggio mentale e dell’anima.

Nella  sua Dissertatio medica Hofer descrive la nostalgia come “una tristezza continua, la patria come unico pensiero, il sonno disturbato o l’insonnia, la perdita di forze, la minore sensibilità alla fame e alla sete, l’angoscia e le palpitazioni di cuore, i frequenti sospiri, l’ottusità dell’anima concentrata quasi esclusivamente sull’idea della patria, cui vanno aggiunti vari disturbi, sia precedenti la malattia sia conseguenti a essa, nonché le febbri continue e intermittenti, alquanto ostinate se non si soddisfa il desiderio del malato”.

Non bisogna sottovalutare il contesto storico in cui è nato questo termine che compare a fine del seicento, quarant’anni dopo la fine della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), episodio bellico che ha segnato la progressione dei moderni eserciti e l’urbanizzazione di molti popoli europei. A fine del XVIII secolo i generali avevano capito che potevano assoldare civili umili e provenienti dalla campagna, con la speranza di una sopravvivenza migliore, soldati che però erano diventati tali senza preparazione ideale e spesso mercenari, quindi lottando per un Paese straniero e lontano da casa. I primi soldati nostalgici sono stati infatti segnalati da Hofer tra le milizie svizzere che combattevano nell’esercito francese, sdradicati da una vita bucolica e semplice. Proprio gli svizzeri, ricorda Hofer, hanno coniato la parola vernacolare Heimweh pensando al dolore prodotto dai ricordi dolci della Patria.

LEGGI ANCHE
L'istruzione progressista aiuta solo i ricchi

La figura ideale del soldato – scrive Foucault in Sorvegliare e punire – un tempo era quella di «qualcuno che si riconosce da lontano» che porta i segni «del vigore e del coraggio, impronte della sua fierezza». Il soldato prima era inserito in una «retorica corporale dell’onore». Ora, alla fine del XVII secolo, «il soldato è divenuto qualcosa che si fabbrica; da una pasta informe, da un corpo inetto si è creata la macchina di cui si ha bisogno». Non è nello scopo di questo articolo improntare una discussione sull’opportunità o meno della coscrizione, quanto descrivere la storia di un concetto che ha a che fare con il bisogno umano di avere radici, luoghi fisici dell’anima e cui fare ritorno o almeno a cui attingere come bagaglio nei momenti di sconforto.

La nostalgia fa bene all’anima

Per quanto riguarda la psicologia il concetto di nostalgia non è stato approfondito a lungo poiché veniva assimilato ad una sfera melanconica, quindi disfunzionale e dannosa per l’uomo. In realtà le ricerche recenti ci dicono che, rispetto al dolore distruttivo della depressione, la nostalgia ha della caratteristiche funzionali nell’elaborazione del lutto e nelle dinamiche esistenziali.

Inizialmente si è imposta una tradizione di ricerca che ha guardato alla nostalgia come fattore mal adattivo ma, a partire dal 2004, diversi autori hanno svolto studi in cui si è dimostrato come il fatto di perdersi in ricordi nostalgici aumenti il tono dell’umore nel lungo termine, rinforzi l’autostima e rafforzi la sensazione di vicinanza agli altri.

Routledge e colleghi hanno cercato di rispondere a questa domanda e hanno svolto una serie di studi partendo dall’ipotesi che la nostalgia abbia la funzione di sostenere e rinforzare l’attribuzione di senso alla vita. Già in studi precedenti, si era visto che in risposta a stimoli che aumentavano la consapevolezza dell’inevitabilità della morte, le persone che avevano una maggiore tendenza a sperimentare nostalgia riferivano una maggiore percezione di significato della vita e avevano meno pensieri di morte, rispetto a partecipanti con una minore propensione a essere nostalgici.

In un periodo storico come il nostro che tende a voler creare una cesura con il passato, a volte nei termini di negazione, spesso anche nella dimensione di furia iconoclasta, è giusto anche potersi ribellare questa visione, non solo per preservare le tradizioni e le culture locali, ma per un fine ancora più vitale, sintetizzato dal titolo dell’ultimo libro di Francesco Borgonovo Conservare l’anima. Manuale per aspiranti patrioti.

In questo saggio l’autore fa un excursus storico sulla modernità, criticando in particolare gli aspetti di essa che tendono a distruggere le fondamenta della società: la spiritualità, l’idea della sovranità delle Nazioni e i legami familiari. La bellezza di questo saggio, oltre allo stile trascinante della prosa, risiede nella sua vocazione: non è (solo) un manuale di politica ma un esercizio spirituale, un’esortazione al lettore a risvegliarsi dal torpore per conservare quanto di più umano c’è in noi, l’arte di fare anima.

 

claudia ruvinetti
+ post

Laureata in Psicologia, militante politica, coltiva parallelamente la passione per i temi della comunicazione politica, del rapporto fra i sessi e della storia militare.