di Luca Ruggeri

La Turchia, per chi si interessa di economia, continua a fornire inediti spunti di riflessione.

Giovedì 18 agosto la banca centrale turca ha ulteriormente abbassato il tasso di interesse di ben un punto percentuale (dal 14% al 13%), in splendida solitudine dato che le altre principali banche centrali attualmente sono posizionate verso un innalzamento dei tassi per combattere l’inflazione. La riduzione ha sconcertato gli osservatori, che si attendevano un mantenimento dei tassi in essere, ed è stata giustificata dalla banca centrale con l’indebolimento economico legato ai rischi geopolitici attualmente presenti. Spiegazione che non ha minimamente convinto gli analisti.

Il continuo abbassamento dei tassi di interesse ha contribuito ad alimentare l’elevata inflazione e l’Istituto Statistico Turco, l’equivalente della nostra ISTAT, ha quantificato l’inflazione annua a luglio quasi all’80%. L’analisi per singolo componente vede quale seconda voce, in ordine di crescita, il cibo e le bevande non alcoliche (+94,65%), con intuibili riflessi sul bilancio familiare degli strati meno abbienti della popolazione. Peraltro istituti di ricerca non governativi stimano una inflazione reale ben superiore al 100% annuo. Una situazione che spiega la decisione del governo di alzare il salario minimo, misura certo non risolutiva che ha ulteriormente sostenuto la crescita dell’inflazione.

L’approccio turco circa i tassi di interesse ha comportato un continuo deprezzamento della valuta nazionale rispetto al dollaro. Il cambio dollaro/lira turca all’inizio del 2021 era 7,46; mentre viene scritta questa nota staziona attorno a 18,10 lire per dollaro, quindi con una svalutazione assai pesante ed una volatilità accentuata. La banca centrale turca ha cercato di sostenere la lira vendendo le proprie riserve in dollari, ma la pressione dei mercati ha provocato, oltre alla svalutazione della lira stessa, la pressoché totale distruzione delle riserve di valuta estera della banca centrale.

La quantificazione delle riserve valutarie residue viene peraltro contestata dagli analisti, dato che la banca centrale contabilizza tra le riserve gli accordi swap stipulati con altre banche centrali; tali accordi consentono di utilizzare le valute delle parti contraenti e non valuta pregiata come il dollaro, ma certo non costituiscono una riserva in sé.

La difficile situazione ha portato ad altre iniziative finanziarie “curiose”. Ad esempio, nel tentativo di trattenere gli investitori stranieri – ovviamente poco entusiasti di investire in una nazione con rendimenti reali negativi e dalla politica monetaria discutibile – si sono offerti finanziamenti in lire turche a tasso zero ai non residenti a fronte dell’acquisto di obbligazioni locali, da mantenersi per almeno due anni, con un rendimento garantito in dollari del 4%, che è evidentemente poco se confrontato con il rischio di credito della Turchia.

Precedentemente, nel 2021, si sono introdotti dei depositi in lire con la garanzia statuale di versare la differenza tra il tasso offerto dalle banche locali e il deprezzamento della lira contro dollaro. I risparmiatori turchi hanno aderito in misura limitata ma la spesa per lo Stato turco sarà comunque pesante data la svalutazione della lira, accentuata dall’ultima manovra sui tassi.

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La peculiare politica della banca centrale turca viene generalmente interpretata come posta in essere in obbedienza alla convinzione del governo Erdogan che gli interessi siano contrari ai principi dell’Islam e che alti tassi di interesse incrementino l’inflazione (esattamente il contrario di quanto reputato dagli economisti del resto del mondo, aldilà delle palesi perplessità circa le pesanti intromissioni governative nell’operato della banca centrale). Un’interpretazione più pragmatica del comportamento del governo turco evidenzia come tassi di interesse reali negativi consentano di spingere l’economia, che infatti nel 2021 è crescita dell’11% e del 7,9% nel primo trimestre 2022, in vista delle elezioni che si terranno l’anno prossimo.

Se quest’ultima interpretazione è corretta siamo di fronte ad una scommessa il cui elemento chiave è il tempo. La Turchia è infatti un Paese trasformatore con una bilancia commerciale in passivo che ha estrema necessità di dollari per pagare l’import (pena lo stop delle attività produttive) e i debiti delle proprie imprese, ma la difesa della lira sui mercati dei cambi ha esaurito le riserve di valuta senza arrestare la continua svalutazione della moneta turca.

I riflessi di tale andamento economico non si limitano all’economia e alla finanza ma finiscono per costituire un vincolo alla politica estera di potenza che la Turchia ha posto in essere in tempi recenti, ad esempio in Siria, Libia e Somalia, talora a danno dei nostri interessi nazionali.

In questo contesto, l’incontro tenutosi nell’aprile scorso tra Erdogan e i regnanti dell’Arabia Saudita sicuramente segna un tentativo di spezzare l’isolamento della Turchia nella propria area geografica; ma la radicale inversione nell’atteggiamento verso l’Arabia Saudita, dopo il pesante scontro scatenato in occasione dell’omicidio Khashoggi, trova una palese motivazione della difficoltà economiche della Turchia. Come comprovato dai temi discussi nell’incontro, tra i quali spicca un supporto finanziario quantificato, da fonti giornalistiche, in 10/20 miliardi di dollari.

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Ricercatore senior del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Economia, ha lavorato per oltre venti anni presso una grande banca italiana ed attualmente svolge la propria attività quale direttore generale presso un investitore istituzionale.