Sovrapposizione, sincretismo, soppiantamento: così trionfarono le feste cristiane
È lungi dall’essere certo, ma si pensa che il Natale cristiano sia stato assegnato al 25 dicembre per sovrapporsi ad altre festività gentili – e soppiantarle. In particolare il 25 dicembre era in auge il Natalis Solis Invicti, importato a Roma dai Severi, che coincideva col giorno in cui, secondo il calendario romano, cadeva il solstizio d’inverno. Tutto il periodo, così importante per delle civiltà agricole, era ricco di celebrazioni, nel mondo romano così come in quello celtico o germanico. Antichissima a Roma era la celebrazione dei Saturnalia.
La sovrapposizione non riguardava solo le date, ma anche alcuni simboli e riti. Il presepio trova forse una sua lontana ascendenza nei lares familiares, le statuette degli antenati che i latini tenevano in casa e che proprio in occasione dei Saturnalia erano scambiati in dono. L’albero di Natale deriva dalla pratica pre-cristiana, diffusa soprattutto tra i popoli nordici, di associare al solstizio d’inverno le piante sempreverdi. Così l’usanza di baciarsi sotto il vischio nei Paesi anglosassoni.
Tutto ciò avvenne forse per caso; ma (che fosse voluto o meno) la sovrapposizione ai riti gentili di quelli cristiani favorì l’affermarsi di questi ultimi. Prassi, gesti e simboli fortemente radicati nella mentalità e nell’uso popolare venivano presi e “risignificati” (per usare un termine oggi in voga). L’usanza rimaneva, ma con nuovi significati. L’innesto si rivelò più efficace di dover sradicare un albero secolare per piantarne uno novello.
Dal Gay Pride al Pride Month
Quest’esperienza può suggerirci qualcosa sul modo in cui dovremmo rapportarci con la nuova festività del “Pride“. Ufficialmente è una “commemorazione” laica, quella della “rivolta del Stonewall”. Parliamo di un iconico locale gay nella New York di fine anni ’60, di proprietà della potente famiglia mafiosa Genovese e anche perciò oggetto di frequenti perquisizioni della polizia. Principalmente la finalità era sequestrare l’alcol, per la cui vendita il locale mancava della licenza, ma all’epoca anche il travestitismo era proibito. Una di queste perquisizioni, nel 1969, sfociò in scontri tra la clientela e la polizia che si protrassero per due notti.
È da allora che si è diffusa la pratica – prima a New York e poi in mezzo mondo – di tenere il 28 giugno, anniversario dei tumulti, la “marcia dell’orgoglio gay” o “Gay Pride”. Sul finire degli anni ’90 le celebrazioni cominciarono a prendersi l’intero mese di giugno, proclamato “mese dell’orgoglio LGBT” o, più laconicamente, “Pride Month”. Durante questo mese, non solo negli USA ma anche in Italia e molti altri Paesi, si organizzano le solite sfilate carnevalesche, le aziende sfoggiano loghi a tinte arcobaleno e producono spot moraleggianti, media e scuole propagandano temi e “valori” del Pride.
Il Pride Month è una festa religiosa
Dietro questa celebrazione apparentemente laica si cela, com’è ormai palese a qualsiasi osservatore attento, una festività para-religiosa. L’Orgoglio è quello con cui si celebra e promuove un “uomo nuovo”, un nuovo tipo umano che solo marginalmente è definito dalla sua sessualità. Nell’era della teoria della “fluidità di genere” questa dimensione sta sparendo del tutto. Si parla ormai di Pride Month: “Gay” è divenuto aggettivo ridondante. Infatti, sempre più persone non omosessuali partecipano alle celebrazioni del Mese dell’Orgoglio. Il nuovo prototipo umano sfoggia una gamma di caratteri indipendenti dalla sessualità: i capelli tinti di colori improbabili, i vestiti “gender non-conforming“, un atteggiamento lascivo ecc. Associato al prototipo sono spesso posizioni politiche – come quella immigrazionista – che di per sé non hanno nulla a che fare con l’essere gay, ma sono parti integranti dell’uomo nuovo. Anzi: ne sono il cuore stesso.
Durante il Mese dell’Orgoglio tutti devono sfoggiare segnali esteriori di adesione intima ai valori celebrati. Che sia una bandiera o un indumento arcobaleno, che sia la nuova foggia del logo aziendale, che sia la spilletta di “alleato” degli LGBT, basta che sia palese l’appartenenza alla setta. Astenersi dall’esibire questo segnale di adesione/sottomissione espone automaticamente all’accusa di essere “omofobo”. Un comportamento assolutamente in linea con l’intolleranza tipica delle sette religiose. Questa parla di “omofobia” ma si potrebbe ben dire “miscredenza”. Se poi pensiamo al rischio concreto di rappresaglia (boicottaggio, molestie, licenziamento ecc.) che può toccare chi non abbia indossato i colori del Pride, un’altra analogia viene alla mente: quella con la Pasqua ebraica. Gli Ebrei segnavano i portoni di casa perché gli angeli di Dio vi passassero davanti senza infliggere la punizione. Oggi credenti e sottomessi al Pride esibiscono l’arcobaleno perché l’orda – virtuale o reale – non li prenda di mira cercando di distruggergli vita e reputazione.
Come si sconfigge il Pride?
Come conservatori possiamo, ovviamente, accettare l’omosessualità o qualsiasi altra pratica sessuale che un individuo compie, con un partner consenziente e adulto, nella propria camera da letto. Un conservatore può essere omosessuale – e viceversa. Ma accettare il Pride Month è un altro paio di maniche. Il Mese dell’Orgoglio è la festività di una cripto-religione progressista che vuole produrre un “umano nuovo” a sua immagine e somiglianza: fluido, sradicato, manipolabile. Una cripto-religione aggressiva e intollerante. Da conservatori, l’unica scelta possibile è opporvisi. Per quanto detto finora, bisogna organizzarsi avendo in mente che ci si sta contrapponendo a una festa di tenore religioso.
Quali opzioni abbiamo, dunque?
La prima sarebbe ignorarla. Fare finta che il Pride Month non esista, sperando che una volta riaperti gli occhi sia davvero sparito, come un brutto sogno. Purtroppo, non può funzionare. Il Mese dell’Orgoglio è spinto non solo dal forte e capillare attivismo LGBT, ma pure da tutto l’apparato progressista, generosamente innaffiato di milioni dal gotha del capitalismo mondiale. Se indisturbato, il Pride non si fermerà ma continuerà a crescere, diventando sempre più presente (e opprimente) nei nostri giugni futuri. Con lungimiranza (luciferina forse, ma sempre lungimiranza) i suoi attivisti hanno preso a focalizzarsi sul coinvolgimento/indottrinamento dei più piccoli: si vedano gli spettacoli presuntamente family-friendly delle drag queen che ormai spopolano in America.
Una seconda opzione è quella di contrastare direttamente il Pride Month, condannandolo, ostacolandolo, boicottandolo. Pure soprassedendo sull’interrogativo morale (sabotare gli spazi altrui per cancellarli è tipico della Sinistra intollerante: sarebbe lecito fare lo stesso, seppur per reazione?), anche qui la disparità di forze ci condannerebbe. Di fronte a una minaccia al Pride, che sarebbe immediatamente bollata come “odio”, attivisti e finanziatori reagirebbero raddoppiando gli sforzi.
L’Orgoglio. Il nostro
Ed eccoci alla terza opzione. Lasciare che i progressisti portino avanti il loro Pride Month. Il che è una scelta di moderazione, tolleranza e liberalismo. Ma contrapporvi un nostro Mese dell’Orgoglio. Non certo dell’orgoglio per il nuovo tipo (trans)umano fluido e sradicato, né uno speculare e insensato “orgoglio eterosessuale”, bensì orgoglio per le nostre radici. Orgoglio per la nostra storia, le tradizioni, gli avi. Orgoglio per la civiltà occidentale cui apparteniamo. Orgoglio per la nazione. Non a caso tutte cose che i progressisti vogliono cancellare o demonizzare.
In questo mese, più che negli altri 11 dell’anno, si potranno tenere convegni e momenti culturali per riscoprire e valorizzare questa identità. Con un po’ di fantasia e abilità, si potranno cercare forme e mezzi comunicativi mirati ai più giovani, per trasmettere loro una visione “sana” di ciò che sono, di dove vengono e dove possono andare. Si possono stimolare le persone a una partecipazione attiva e individuale alla celebrazione, ad esempio condividendo la storia di un antenato che si è particolarmente distinto (chi di noi non ha un nonno, bisnonno o trisavolo che abbia fatto la guerra?). E molte altre ancora sono le possibilità.
Innestandosi su una prassi e una parola d’ordine già affermata dagli avversari, le possibilità di successo saranno maggiori. In questo caso la potenza del Pride Month non schiaccerà la nostra versione, ma fungerà da moltiplicatore di potenza. Come il solstizio col Natale.
Certo: non possiamo immaginarci che questo mese alternativo dell’orgoglio abbia subito il risalto, la partecipazione e la buona stampa di cui gode quello “ufficiale”. Inizierà in sordina e, se troverà risonanza, sarà principalmente per demonizzarlo o ridicolizzarlo. Poco male. Credete forse che gli omosessuali e travestiti che si scontrarono con la polizia, quel 28 giugno del 1969, per difendere un locale della malavita godessero delle simpatie della popolazione, dei media e delle aziende? No di certo. Probabilmente nessuno di loro si immaginava che stesse gettando i semi per far fiorire, cinque decenni più tardi, una festività religiosa globale. Eppure è stato esattamente così.
Chi non ha fede né coraggio è sconfitto in partenza. Agli altri l’onere di tentare – e il privilegio di sognare il successo.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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