di Repetita Iuvant

A conferma di quanto fossero fondate le nostre preoccupazioni, il legislatore, sollecitato informalmente, vorrebbe ora intervenire per “metterci una pezza” al grido social di “nessuna limitazione alla libertà di opinione, nessun bavaglio”.

In particolare, la maggioranza vorrebbe ora risolvere tutti i problemi posti dall’incerta formulazione del nuovo reato di “discriminazione e istigazione alla discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere” (art. 604 bis co. 1 lett. a c.p.), accogliendo un emendamento targato Forza Italia che recita: “Ai sensi della presente legge [il d.d.l. Omofobia], sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Emendamento celebrato anche da Laura Boldrini.

Scartata subito la surreale ipotesi di un Partito democratico ricondotto al buon senso grazie alla lettura di un piccolo editoriale generosamente ospitato dagli amici di Centro Studi Machiavelli, rimangono soltanto due possibili spiegazioni per questa apparente e improvvisa apertura: incompetenza o malafede.

La clausola limitativa della responsabilità che si vorrebbe introdurre, infatti, è in parte equivoca e in parte assertiva dell’ovvio. Detto in altri termini: non serve a nulla e non risolve nessun dubbio ermeneutico sollevato dalla nuova fattispecie incriminatrice.

Che siano “consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni”, in primo luogo, non si può certo affermare in modo così generico, dato che numerosi “convincimenti od opinioni”, se espressi, sono penalmente sanzionati (es.: diffamazione). Peraltro, un chiaro esempio di limitazione del diritto alla “libera espressione di convincimenti od opinioni” si può rinvenire proprio nel reato di “discriminazione e istigazione alla discriminazione”, ove già ora si vieta appunto “la propaganda” di “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale e etnico” e, in futuro, si vorrebbe vietare “l’istigazione a commettere […] atti di discriminazione […] per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.

Escluso – ci si augura – che gli emendanti si siano dimenticati di leggere il testo dell’articolo del codice penale che si è voluto indirettamente emendare, l’aggiunta può interpretarsi soltanto come un mero richiamo formale all’art. 21 Cost., che già tutela il diritto “di manifestare liberamente il proprio pensiero” e che, però, per sua natura, non può certo contribuire a chiarire a che condizioni la “libera espressione di convincimenti od opinioni” trasfiguri in un’istigazione alla discriminazione punita ex art. 604 bis c.p.

Se un prete, durante la predica, afferma che l’omosessualità è uno spregevole peccato capitale, sta istigando alla discriminazione o sta esercitando il suo diritto alla “libera espressione di convincimenti od opinioni”? Ma soprattutto, a chi spetterà, in concreto e pro futuro, l’ultima parola sul punto?

Allo stato, rimane valida la risposta che avevamo dato una settimana fa: l’ultima parola spetterà alla magistratura ordinaria, a quella sovranazionale (CEDU) e, se qualche magistrato dovesse sollevare questione di legittimità costituzionale, a quella costituzionale; così, sarà ancora una volta l’ordinamento giudiziario a governare, al posto del Parlamento, i cambiamenti socio-culturali in atto nel Paese.

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La seconda parte della norma, vero capolavoro di truismo, ci informa poi del fatto che condotte “legittime” sono anche “consentite” – fatto, quest’ultimo, noto anche ad un bambino in età prescolare – e, dunque, non rientrano nel campo di applicazione del nuovo reato di “discriminazione o istigazione alla discriminazione”.

Il problema di fondo, però, rimane completamente irrisolto. Quali sono le condotte “riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte” che, però, sono anche “legittime” e quelle che, invece, potranno e dovranno essere perseguite ai sensi del nuovo art. 604 bis c.p.?

Se il responsabile di una piscina pubblica rifiuta l’accesso allo spogliatoio femminile di un soggetto di sesso maschile, che si identifica come donna, il rifiuto dovrà considerarsi “legittimo” in quanto “riconducibile alla libertà delle scelte” oppure “discriminatorio” e, quindi, punito ai sensi del reato di “discriminazione per motivi fondati sull’identità di genere”? E, di nuovo, a chi spetterà prendere posizione in maniera vincolante sul punto?

Peraltro, nel panorama comparato non mancano certo esempi di norme analoghe, formulate però in modo da risolvere le questioni interpretative più delicate. Il paragrafo 86 del codice penale tedesco, che punisce la diffusione di mezzi di propaganda riconducibili ad associazioni vietate dalla costituzione, contiene ad es. una c.d. “clausola di adeguatezza sociale” che espressamente esclude la punibilità nel caso in cui il mezzo di propaganda diffuso sia utilizzato per fini scientifici, artistici, giornalistici, ecc. La clausola serve proprio per evitare applicazioni assurde del reato che, altrimenti, potrebbe essere realizzato anche da chi, in ipotesi, indossasse semplicemente una T-Shirt con una rappresentazione satirica raffigurante Adolf Hitler e la croce uncinata.

Se proprio si vuole intervenire in un ambito così delicato e controverso, insomma, il legislatore faccia almeno lo sforzo di spiegare se intende sanzionare penalmente ogni tipo di discriminazione “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”, oppure, ad es., se intenda continuare a considerare lecite le discriminazioni attualmente esistenti e socialmente accettate in ambito sportivo, religioso o, comunque, fondate sul comune senso del pudore.

Infine, è impossibile non ricordare come continui ad essere platealmente ignorata la questione della possibile applicazione della pena accessoria del divieto di partecipare a qualunque attività di propaganda elettorale nei confronti del condannato per il nuovo reato di “discriminazione o istigazione alla discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Davvero si vuole lasciare alla magistratura ordinaria il potere di decidere, in una materia così controversa e densa di incertezze, chi può o non può partecipare ad una competizione elettorale?

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Pseudonimo. Ricercatore accademico di scienze giuridiche.